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EGIZI




ECONOMIA



IL NILO

La prosperità dell’economia dipendeva dalla generosità delle piene del Nilo, che determinava la resa dei campi.



Ogni anno, dopo le piene del Nilo che allagavano la vallata e ricoprivano i campi di "terra nera",
i contadini cominciavano la loro faticosa opera di canalizzazione
per regolare e sfruttare nel miglior modo il deflusso delle acque;
in seguito, seminavano le terre ricoperte di limo, il grasso fango argilloso, che rendeva fertili i campi.



L'azione benefica del Nilo non sarebbe stata possibile senza il lavoro dell'uomo.
Abbandonato a sé stesso, infatti, il fiume poteva trasformarsi in ogni istante in un nemico:
era necessario domare la sua corrente impetuosa, far scorrere le sue acque in canali
che permettessero di portarle fino ai campi più lontani,
costruire riserve per i periodi di siccità e per gli anni in cui la piena non era sufficiente ad assicurare buoni raccolti.
Per realizzare tutto questo fin dalle epoche più antiche era necessario che l'uomo
lavorasse duramente per tutto l'anno costruendo dighe e scavando canali
e dedicandosi a lavori di pulizia per togliere il fango e la sabbia
che il vento impetuoso del deserto portava sui villaggi e sui campi.

AGRICOLTURA

I contadini solitamente non possedevano i prodotti del raccolto.
il governo infatti, tassava i contadini prelevando una percentuale del raccolto
in misura proporzionale all’ intensità delle piene del Nilo;
un'altra parte era prelevata dal clero e al contadino spettava solo lo scarso rimanente.
Del resto il Governo provvedeva ad immagazzinare le eccedenze
per poi distribuirle negli anni di carestie.
L’unico altro compito del Governo in materia economica era quello di provvedere alla manutenzione dei canali.
Non si trattava di regolamentazione delle acque per controllare le inondazioni
(come avveniva lungo il Fiume Giallo in Cina o in certe aree di Babilonia),
ma solo di assicurare una migliore irrigazione.
L’agricoltura consisteva per la quasi totalità in grano ed orzo.



Il lino, gli alberi da frutto (fichi, datteri), la vite e diverse varietà di ortaggi e legumi,
erano prodotti diffusi, ma destinati al popolo solo per lo stretto necessario.
Il vino, che veniva arricchirlo con erbe e resine, era prerogativa dei ricchi e spesso veniva utilizzato in medicina



Oltre alle coltivazioni agroalimentari e al loto, la produzione agricola egiziana
includeva anche la coltivazione del papiro,
una fibra vegetale utilizzata dagli egiziani per fabbricare la carta
su cui vennero scritti i primi documenti della storia



L'astronomia fu di fondamentale importanza per la realizzazione dei primi calendari agricoli
e gli antichi egiziani furono i primi ad utilizzare un anno solare diviso in 365 giorni.
La gestione pubblica delle grandi opere e della rete di irrigazione, infine,
consentiva agli egiziani di maturare conoscenze avanzate nel settore dell'idraulica e dell'ingegneria.
Il commercio e gli scambi si svolgevano, nell’interno del paese con molta difficoltà
perché gli unici mezzi di trasporto erano delle piccole imbarcazioni
che navigavano sulle acque del Nilo e nei canali.
Il commercio con altri paesi era affidato alle iniziative altrui.

ALLEVAMENTO

L'allevamento dei bovini era molto diffuso: ve ne erano molte specie
allevate sia per la carne sia per tirare l'aratro;
erano noti anche alcuni sistemi di selezione delle razze attraverso la scelta dei tori più adatti.
In particolare veniva allevata una razza con le corna lunghe che oggi si trova solamente nel Sudan.



Successivamente questa varietà fu sostituita da un'altra con le corna più corte e le zampe più magre.
Tra le specie allevate vi erano anche colombi, cammelli, cavalli, capre, pecore, maiali, asini:
questi ultimi erano usati anche per i lavori nei campi e nei trasporti.
Molto importante per la dieta degli Egizi, anche la caccia di lepri, gazzelle, daini, antilopi

PESCA

Il pesce era uno degli elementi base della dieta dell' antico Egitto.
Oltre al consumo di pescato fresco, gli egiziani erano usi anche
essiccare e salare i pesci per la lunga conservazione.
In particolare era il principale componente delle razioni delle compagini militari.
La pesca fu largamente praticata nelle acque del Nilo e nei canali in cui i pesci abbondavano
Per la loro pesca venivano utilizzati due strumenti piuttosto antichi:la lancia e l'arpione.
Gli Egizi conoscevano già l'uso della canna e degli ami che venivano realizzati in avorio o in bronzo.
Era già conosciuto all'epoca l'uso di piccole reti o di reti a strascico
usante sia da terra sia a bordo di barche costruite di papiro.
Le specie pescate erano Anguille, Carpe, Cefali, Pesci siluri, Persici.



Un metodo che dava una buona resa in termini di quantità era quello della nassa, diviso in due tipi:
la nassa semplice e la nassa doppia.
La nassa semplice era costituita da una sorta di gabbia di giunchi, a forma più o meno di bottiglia.
Il bordo era ostruito da una serie di giunchi convergenti ad imbuto verso l'interno
e disposti in modo da spostarsi lievemente onde permettere, una volta immersa, l'ingresso dei pesci ma non la loro uscita.
Una volta piena, bastavano due persone per vuotarla rapidamente dalla parte opposta a quella d'entrata dei pesci e rimetterla in acqua.



La nassa doppia era in tutto e per tutto simile alla semplice,
solo che era prolungata da un elemento cilindrico che doveva probabilmente servire da riserva,
con la conseguenza che essa doveva essere manovrata da un numero maggiore di persone.
Un altro tipo di pesca era la pesca con paniere. Questo sistema, raffigurato nelle cappelle funerarie,
consisteva in una sorta di paniere rovesciato, di forma conica, dalle pareti costituite da giunchi intrecciati.
Tale paniere presentava due aperture: una superiore stretta e circondata da un rinforzo,
ed una inferiore larga e bordata, da cui sporgevano dei giunchi appuntiti che formavano le pareti del paniere.
Lo strumento era usato premendo nel greto le estremità appuntite dell'apertura inferiore, così da imprigionare i pesci in quel punto:
infilando la mano nell'apertura superiore si potevano con comodo afferrare.
Questo tipo di pesca poteva essere esercitato solamente in acque abbastanza basse,
così da lasciare emersa l'apertura superiore del paniere.
Il sistema è attestato soprattutto nelle tombe dell'Antico Regno e degli inizi del Medio, per poi scomparire.
Un altro tipo di pesca era quello con la lenza.
Nell'Antico e Medio Regno sono visibili frequenti rappresentazioni di questo tipo di pesca.
La pesca con rete o a strascico, è senza dubbio il sistema più spesso rappresentato nelle tombe egiziane,
attestato dall'Antico Regno fino a tutto il Nuovo Regno.
Il metodo non doveva essere dissimile da quello tuttora usato.
Esso veniva con ogni probabilità applicato soprattutto nei canali.
I pescatori si disponevano in due squadre: una restava a riva reggendo un'estremità della rete,
l'altra, reggendo il capo opposto stando su di un'imbarcazione, traversava il canale
trascinando e tendendo la rete fino ad arrivare alla riva opposta.
Da lì, si tornava alla riva di partenza chiudendo il cerchio, tirando a riva la rete.
Quest'ultima era provvista di galleggianti e di pesi che la tenevano verticale
e le davano la possibilità di fermare i pesci del canale.
La fase maggiormente rappresentata nelle tombe è quella del traino finale della rete.
Le due squadre sono in genere raffigurate una di fianco all'altra, mentre la rete descrive un semicerchio sotto la barca.
I pesci, numerosissimi, sono visibili all'interno della rete.
Alle estremità di questa, due aiutanti sono spesso occupati ad arrotolare i capi della corda
che sorregge la rete man mano che questa viene chiusa dalle due squadre.
Sovente è rappresentato una sorta di capo pescatore o di sorvegliante che dà consigli o incita i lavoranti.



La Pesca con vangaiola era praticato utilizzando due pertiche incrociate e rinforzate da un elemento trasversale in legno
che facevano da supporto ad una rete a forma di sacca.
Messa la rete in acqua, il pescatore attendeva che si fosse riempita di pesci per rialzarla bruscamente
per mezzo delle pertiche, vuotando il pescato in un cestino.
Questo sistema è raffigurato nelle cappelle funerarie solo fino agli inizi del Medio Regno.
La pesca con l'arpione era sostanzialmente simbolica. Anche se praticata realmente
l'intento era quello di raffigurare il defunto felice impegnato nei sacrifici rituali.
L'individuo era posto in piedi sulla barca, in genere di papiro,
adatta alla navigazione palustre, nell'atto di infilzare due pesci (sempre due).
Con lui sulla barca sono sovente raffigurati la sposa e i figli,
e dalla riva altri personaggi osservano la scena.
Questo motivo è in genere una costante dalla V alla XIX dinastia.
Sulla riva, i pesci venivano aperti, puliti dalle interiora, appesi a seccare
e infine posti sotto sale dentro grandi giare per la conservazione.
Il pesce fresco era invece cucinato di solito arrosto o lessato.
Dalle uova dei muggini era ricavata anche una specie di bottarga:
le uova estratte durante la pulitura dei pesci
venivano salate e quindi appallottolate e pressate
Il pesce, che veniva identificato con il malvagio Seth non era consumato dai Faraoni e dai sacerdoti.
Pur essendo quindi un alimento notevolmente diffuso, il pesce non poteva essere mangiato
in occasione di cerimonie essendo considerato impuro.
Il Papiro Sallier precisa che esistevano determinati giorni
nei quali il pesce non poteva essere consumato
ed era persino proibito toccare chi lo avesse mangiato.
Tuttavia il pesce costituiva l'elemento base dell'alimentazione nella vita ultraterrena.
Ciò è testimoniato dalle stesse rappresentazioni rinvenute all'interno delle tombe.
Nonostante il consumo di pesce fosse proibito in alcune province egizie
e fosse comunque limitato ovunque per motivi religiosi,
in talune occasioni il pesce era uno degli alimenti che il defunto
avrebbe dovuto mangiare nella sua nuova vita nell'Aldilà.
In ambito mitologico anche la pesca, così come la caccia, aveva una sua funzione.
Simbolicamente, l'atto di pescare poteva riportare in vita una divinità mutilata,
perché l'occhio che Seth strappò a Horo fu ritrovato nella rete di un pescatore.
Il nemico di Ra aveva le sembianze di un pesce. Inoltre, se un defunto
era a conoscenza del capitolo 153 del Libro dei Morti,
poteva dimostrare di essere stato un pescatore, ed evitare, pertanto,
di rimanere intrappolato nelle reti che gli spiriti maligni
delle scimmie gettavano nelle acque infernali.

CACCIA

La caccia e la pesca furono tra le attività più praticate nell’antico Egitto fin dall’Epoca Preistorica
e naturalmente hanno sempre fornito carne e pesce per l’alimentazione degli egiziani.
In epoca storica la caccia, almeno per quanto riguarda gli animali di grossa taglia,
rimase come attività di tipo sportivo da parte dei ricchi nobili,
che spesso si dedicavano a cacciare nel deserto o lungo il Nilo
lepri, leoni, gazzelle, ippopotami, e così via.
Le classi meno abbienti, che non potevano concedersi il lusso di imponenti cacce alle grandi belve del deserto,
erano solite integrare la loro povera mensa con la cattura di piccioni,
anatre, oche, gru e vari tipi di uccelli acquatici
che venivano generalmente catturati mediante una rete stesa su uno specchio d’acqua tra due pertiche.
Gli uccelli venivano attirati con esche quali grano e vermi e,
una volta che la rete era piena di volatili, la corda veniva improvvisamente tirata intrappolando le prede.
Talvolta, per differenti specie, venivano anche utilizzate come trappole delle buche.



A riva i volatili venivano subito uccisi, spennati, ripuliti delle interiora
e messi sotto sale dentro grosse giare, per essere conservate.
Se tali prede venivano cacciate a terra, era solitamente distesa una serie di trappole
formate da reti con 6-8 lati, con una corda
passante per ciascun angolo della rete, regolandone l’entrata.



Non tutte le prede venivano però subito consumate o sacrificate alla divinità;
una parte di esse, soprattutto anatre, oche e gru, veniva infatti destinata all’ingrasso,
per essere consumata in secondo momento.
Scene di vita quotidiana nell’Antico Egitto, dipinte o in rilievo sulle parete di numerose tombe,
ci mostrano infatti volatili addomesticati, rinchiusi in recinti,
con inservienti intenti ad introdurre a forza nei loro becchi dei pastoni per farli ingrassare.
Anche gazzelle e iene, una volta catturate, venivano sovente tenute in cattività;
queste ultime, in particolare, erano spesso addomesticate ed utilizzate come cani da caccia,
grazie al loro ottimo fiuto e alla grande capacità di seguire le tracce lasciate dalle prede.
La caccia agli uccelli nei pantani, che necessitava di una maggiore organizzazione,
era invece un’attività ludica ad esclusivo appannaggio dei nobili che,
attorniatisi dei propri servitori, amavano cimentarsi in battute utilizzando armi
che nulla avevano di diverso rispetto a quelle belliche.
Tali battute venivano generalmente svolte alla fine della stagione delle inondazioni,
periodo in cui, oltre alle numerose specie stanziali, erano presenti nelle paludi del Delta
anche numerosi uccelli migratori di passaggio.
La caccia veniva effettuata postandosi silenziosamente su canoe di papiro
e la cattura effettiva della preda avveniva per mezzo di boomerang,
dopo aver attratto un gran numero di volatili presso un uccello imprigionato ed usato come richiamo.
Questo bastone da lancio era un palo ricurvo che, in realtà,
nulla aveva a che vedere con la tipica arma degli aborigeni australiani,
perché, una volta lanciato, non era in grado di tornare indietro.
I numerosi servitori, che accompagnavano il sovrano nelle battute,
trasportavano sia le armi che le prede catturate le quali, se eccessivamente numerose
da non entrare nelle gabbie, venivano bloccate mediante la frattura delle ali.
Non di rado il faraone era anche accompagnato da cani, o addirittura gatti,
ausiliari nel recupero delle prede abbattute.



Molto diffusa era la caccia all‘ippopotamo, specie molto diffusa all’epoca lungo le sponde del Nilo.
Considerato come il re del grande fiume, questo animale era, ed è,
una delle prede più pericolose da cacciare.
Territoriale ed irascibile, esso poteva essere avvicinato solamente
fino ad una certa distanza da squadre di battitori che rimanevano
sulle imbarcazioni e si avvalevano di lance e di arpioni,
costituiti da un'asta di legno con all’estremità, un gancio metallico,
collegato alla barca da una robusta corda che permetteva
di non far allontanare l’animale catturato.
L’uccisione di tali animali, oltre a rappresentare una fonte abbondante di carne,
si rendeva talvolta necessaria per consentire un passaggio sicuro alle imbarcazioni lungo il fiume e i canali.
Sulle sponde del Nilo era cacciato anche il gigantesco coccodrillo,
simbolo egizio di malvagità, le cui fauci aperte simboleggiavano l’ingresso agli inferi;
esso, emergendo dalle acque, veniva associato al culto del Dio del Sole Ra.
Non di rado, il faraone spostava il suo territorio di caccia
nelle zone più interne e desertiche, per la cattura di struzzi e gazzelle.
Qui la tecnica di caccia cambiava; inizialmente effettuata a piedi,
dopo l’avvento epocale del cavallo e del carro, il faraone cominciò ad armarsi di arco
per scagliare frecce alla preda prescelta.
Inizialmente quest’arma non era altro che un ramo di un albero tenuto curvo con una corda.
Solo in seguito, divenne accuratamente levigato, con frecce costituite da fusti rigidi di canna,
munite di punte in selce, bronzo e, infine, metallo.
Preda ambita era anche il toro selvatico, in quanto animale sacro e simbolo di fertilità;
una volta cacciato, i suoi lombi venivano, infatti, offerti in dono alle divinità.
Esso rappresentava la crescita annuale del Nilo, la forza, il valore,
sostanzialmente la vera e propria essenza del faraone.
La sua cattura era tutt’altro che semplice, ma rischiosa e cruenta,
attuata mediante un laccio dal faraone in piedi sul carro trainato da cavalli.
Per fiaccarne la resistenza potevano anche essere utilizzate armi da lancio e archi;
una volta indebolito e catturato, esso veniva solitamente accudito in un luogo recintato.
La preda preferita dal sovrano era, però, indubbiamente il leone, animale sacro
simbolo di virilità, regalità e forza;
. esso metteva a dura prova il coraggio di chi osasse abbatterlo
e la sua caccia, praticata esclusivamente dal faraone, aumentava il prestigio di quest’ultimo
che, una volta catturata la fiera, la offriva come il dono più gradito che potesse fare agli Dei.

ARTIGIANATO

La popolazione non dedita all’agricoltura svolgeva lavori artigianali,
ma l’artigianato, pur fiorente (oreficeria, ceramica, suppellettili),
soddisfaceva in prevalenza la domanda interna.
Difficilmente un artigiano poteva permettersi di lavorare in proprio
e di solito era alle dipendenze dello stato o del tempio,
dai quali riceveva pagamenti in natura
(derrate alimentari, vesti, sandali, sale, alloggio, utensili,attrezzi di lavoro, cure mediche, sepoltura).
Anche se gli artigiani si tramandavano la loro esperienza, i loro segreti e le loro tecniche di padre in figlio,
erano soliti accogliere anche apprendisti che non appartenevano al loro ambito familiare.
Come si può vedere nella Satira dei Mestieri, i giovani egizi
erano liberi di scegliere un lavoro secondo le proprie inclinazioni,
anche se li si metteva in guardia contro le difficoltà che li attendevano nei vari mestieri.
Fino alla IV dinastia gli artigiani vennero impiegati prevalentemente nella costruzione delle grandi piramidi,



ed in seguito durante la V, nei cantieri templari.
Erano cavapietre, scalpellini, falegnami, carpentieri, fonditori, scultori, stuccatori, pittori;
essi conoscevano i segreti della lavorazione di tutti i tipi di pietra,
dal granito, all’arenaria, all’alabastro,
e di ogni tipo di legno e di metallo, anche se non ancora del ferro.
Con la VI dinastia, però, cessò quasi completamente l’attività edilizia,
che per più di due secoli e mezzo aveva impegnato 50 generazioni di artigiani.
Raccolti nella capitale e privi di un sistema sociale che assicurasse lavoro e sostentamento,
nel 2260 circa, gli artigiani diedero il via a una rivolta sociale,
la prima della storia, che contribuì all’indebolimento del potere
e all’anarchia del Primo Periodo Intermedio
La storia di questa protesta è narrata in un antico papiro conservato nel Museo Egizio di Torino.
"Anno 290 del regno di Ramses III, mese VI, giorno 21.
In questo giorno le mura del villaggio sono state attraversate dagli operai,
che dicevano: "Abbiamo fame, sono già passati venti giorni del mese".
Lo scriba e il sacerdote ascoltarono le loro dichiarazioni.
Essi dissero: è per la fame e la sete che siamo qui.
Non ci sono vesti né unguento né grano né pesci né verdura.
Scrivete di ciò al re, nostro buon padrone.
Dopo di ciò le razioni del VI mese vennero distribuite il giorno stesso."
La lettura di tale documento ci permette di sapere che:
gli anni venivano contati dall’inizio del regno di ogni faraone.
Le razioni alimentari venivano distribuite all’inizio di ogni mese
e il ritardo spiega la protesta degli operai.



Gli Egizi impararono molto presto ad estrarre materie prime dal sottosuolo,
spingendosi, a questo scopo, anche a grandi distanze dalla Valle del Nilo.
Fra le località più anticamente sfruttate c'erano le miniere di Wadi Maghara, nel Sinai,
già attive sotto il faraone Zoser (III Dinasta).
Per raggiungerle era necessario attraversare il Deserto Orientale e seguire la costa del Mar Rosso;
vi si estraevano il rame e la malachite e la regione era sacra alla dea Hathor, detta infatti "Signora della malachite".
Nella parte più meridionale del territorio egiziano si trovavano invece le cave di diorite
(una roccia dura simile al granito) sfruttate fin dall'epoca di Cheope, il costruttore della Grande Piramide.
Il trasporto di questo materiale avveniva lungo il corso del Nilo, almeno fino alla prima cateratta
ed oltre, grazie ai canali fatti scavare dai faraoni a partire dalla IV dinastia.
Cave di alabastro si trovavano a El-Amarna, il basalto veniva dal Fayum, il granito da Assuan,
il calcare da Tura, la quarzite dalla zona di Eliopoli;
L’Egitto era ricco di oro, estratto dalle miniere del Deserto Orientale (Wadi Hammamat) e dalla Nubia
e di avorio, anch’esso prodotto in Nubia;
il Sinai forniva il rame mentre i deserti vari tipi di pietre ottime per l’edilizia.
Una delle gemme più antiche che si conoscono è lo smeraldo, conosciuto in Egitto già 5000 anni fa
La prima testimonianza storica di un giacimento gemmifero installato dall'uomo sono le miniere di Cleopatra
il complesso di Sikait nel nord-est dell'Egitto,vicino alla costa del Mar Rosso.



Per secoli i faraoni estrassero smeraldi utilizzando mano d'opera schiavizzata.
Questa pietra verde era per gli antichiegizi un simbolo d'immortalità.
Le pietre non solo avevano un mercato interno, ma venivano anche commerciate
con l'oriente e alcune arrivarono fino in India.
Sono stati ritrovati diversi gioielli di oro e lapislazzuli afghani
nei sarcofaghi dei faraoni ed è la prova dell'esistenza di un commercio tra i due paesi distanti migliaia di Kilometri.
Tutte le miniere erano di proprietà del faraone che le faceva amministrare dai suoi ufficiali e ingegneri
e la maggior parte del lavoro dei giacimenti veniva svolto da prigionieri di guerra o condannanti
che condividevano la loro fatica anche con tutta la famiglia.
Diodoro scrive:
"I re d'Egitto radunano i condannati per qualche crimine, i prigionieri di guerra talvolta da soli,
talvolta insieme a tutta la famiglia.
Questi uomini condannati alle miniere, molto numerosi e tutti incatenati,
faticano senza interruzione sia durante il giorno che la notte,
senza conoscere riposo, attentamente tenuti lontani da ogni possibilità di evasione
in quanto sono circondati da guardiani scelti..."
La forza lavoro necessaria per mandare avanti una miniera sembra fosse talmente grande
da essere paragonata ad un esercito militare,
Ad intervalli regolari carovane di minatori, scortate da guerrieri del faraone,
partivano dai giacimenti e portavano a Tebe, Menfi ed altre città egiziane
le pietre preziose l'oro e l'argento estratto.
Diodoro descrive anche la divisione del lavoro all'interno della miniera dicendo:
"Il lavoro fondamentale è quello svolto dall'operaio specialista
che indica ai manovali il filone che contiene l'oro..
Egli distribuisce il lavoro: i più forti e giovani spezzano la roccia
nel punto in cui è bianca per mezzo di martelli..gli uomini
si servono della sola forza bruta per scavare numerose gallerie nella roccia..
Sono poi i bambini che scivolano nelle gallerie, raccolgono faticosamente i frammenti di pietra
che trascinano all'ingresso della miniera..qui una moltitudine di vecchi
e ammalati prende il minerale e lo mette a disposizione di uomini robusti
che lo pestano in mortai di pietra fino a quando il pezzo più grosso non supera la misura di un lenticchia..."
Successivamente alla frammentazione del quarzo da parte degli uomini
erano le donne che frantumavano in delle macine i piccoli pezzetti di minerale
fino a quando il tutto era ridotto in polvere.
L’operazione successiva, era il lavaggio e consisteva nel far scorrere dell’acqua sulla polvere così ottenuta,
adagiata su pietre inclinate; in questo modo solo le particelle d’oro, più pesanti, rimanevano, al loro posto.
A seconda delle epoche, l’oro veniva fuso direttamente sul posto e confezionato in lingotti,
oppure chiuso in sacchi, ancora in polvere, e trasportato in Egitto.
I faraoni avevano al loro servizio una nutrita schiera di esperti che si spostavano su tutto il territorio egiziano
alla ricerca di metalli e pietre preziose e sembrerà strano ma questi consulenti del re
per cercare l'esatta posizione della vena del materiale prezioso
utilizzavano un pendolino cavo nel quale introducevano la pietra che volevano ricercare..
un po' come fanno i rabdomanti quando cercano l'acqua.
Diodoro Siculo descrive così i giacimenti auriferi:
"Le rocce aurifere sono di colore nero intenso, ma nel loro interno
si può notare una pietra più bianca, che i minatori bruciano con fuoco di legna,
quando questa è ammorbidita la spezzano in piccoli frammenti... "
Purtroppo neanche i più deboli venivano risparmiate dal lavoro delle miniere
e lo storico Diodoro lo ricorda così:
"Non si ha pietà per i vecchi, donne, ammalati, bambini o storpi..
tutti vengono costretti a lavorare con tutte le loro forze
fino a quando muoiono di fatica..."
Ai minatori e le loro famiglie veniva fornito un alloggio che cambiò di tipologia con il passare del tempo:
il primo tipo era costituito da capanne situate di solito su una collina e chiuse da un muro di cinta,
le altre abitazioni erano semplici rifugi scavati nella pietra o case fatte di mattoni di fango.
Al faraone interessava solamente avere la maggior quantità di oro o pietre preziose
per poter aumentare il suo potere e quando una miniera aveva un rendimento ingente
il re faceva scavare un insieme di corridoi e camere all'interno del giacimento.
Questo insieme di gallerie, scavate per volontà del re nelle più importanti miniere,
erano areate attraverso condotti d'aria che spuntavano all'esterno del giacimento
riuscendo così a fare incanalare l'aria nelle camere sotterranee.
Le gallerie erano composte da camere più grandi che servivano da tempio,
da stanze per i sacerdoti e da alloggi per i principi e autorità del re
che andavano ad ispezionare le miniere quando avevano raggiunto il massimo della produzione.
Il loro sfruttamento era reso alquanto difficile, dalla mancanza d’acqua,
dal caldo insopportabile e degli attacchi dei Beduini.
Nelle epoche più antiche furono organizzate delle vere e proprie spedizioni armate.
Soltanto nel Nuovo Regno, grazie a Sethi I e suo figlio Ramses II, lo sfruttamento iniziò ad essere organizzato.
Furono scavati pozzi lungo la strada che partendo da Kuban (Contra-Pselkhis),
portava alle miniere nubiane di Ekayate, dove si trovavano circa trecento capanne di pietre per gli operai,
due cisterne e delle gallerie che penetravano nel cuore della montagna.
Delle condizioni dei minatori abbiamo poche notizie.



Lo storico Diodoro Siculo racconta:
”I prigionieri, nudi e incatenati, lavoravano sotto la sferza inesorabile dei loro carcerieri
e i soldati stranieri incaricati di far loro la guardia
non erano neppure in grado di comunicare perché non conoscevano la lingua dei forzati
che, minati dalla malattia, faticavano sino allo sfinimento e alla morte".
Sembra che il rendimento di queste miniere fosse ingente, sotto il regno di Thtmosi III
se ne registrò l’estrazione di oltre tre tonnellate.Purtroppo con la progressiva decadenza della civiltà egizia
le miniere vennero gradualmente abbandonate e la sabbia del deserto orientale
cancellò le tracce e gli ingressi delle miniere dei faraoni.



I maestri di bottega, gli scultori, gli incisori e altri disegnatori che facevano parte delle botteghe reali,
occupavano un rango elevato nella gerarchia sociale egizia,
in compagnia di specialisti come i perforatori di vasi di pietra dura o gli orafi
I piccoli artigiani, meno qualificati, rispondevano ai bisogni quotidiani della popolazione,
dedicandosi alla costruzione di barche, alla creazione di utensili e di vasellame, alla tessitura del lino.
Una delle comunità artigianali che lavorarono per i faraoni
ci è nota meglio delle altre, grazie agli scavi dell'archeologo francese Bernard Bruyère.
Si tratta della confraternita di Deir el-Medineh (villaggio sulla sponda ovest del Nilo vicino a Tebe)
che nel Nuovo Regno fu incaricata di scavare e di decorare le tombe della Valle dei Re.
Si è scoperto che gli artigiani vivevano con le loro famiglie in un villaggio
chiuso e protetto, alle dirette dipendenze del visir.
Formavano un corpo elitario che aveva a disposizione un suo tempio e un suo tribunale.
Erano controllati dalla polizia del faraone che sorvegliava continuamente il lavoro,
teneva sotto controllo i magazzini degli strumentie quello delle scorte di cibo,
cercava di evitare i furti e tutelava i segreti delle sepolture.
Il villaggio era circondato da un muro di cinta, le abitazioni fatte in mattoni di fango
con fondamenta di pietra erano di modeste dimensioni,
avevano la stessa forma e tutte si affacciavano sulla strada principale.
La planimetria iniziale del villaggio fu mantenuta anche quando furono aggiunte nuove case
durante il regno di Thutmosi III che fece rinforzare la cinta muraria.
Con Ramesse II il villaggio di Deir el Medina arrivò alla sua massima espansione contando oltre 120 abitazioni.
Il villaggio fu definitivamente abbandonato nel corso della XXI dinastia per cause ancora poco chiare.



La settimana era formata da dieci giornate al termine della quale
veniva dato ad ogni operaio un giorno di riposo
la paga era costituita da razioni alimentari fornite dal re che comprendevano:
orzo, grano, pane, carne, birra, sale, pesce, verdure, vino e legna da ardere
ma sono state ritrovate testimonianze di pagamenti anche in argento.
Gli operai che occupavano il villaggio di Giza erano divisi in gruppi di circa 2000 persone
suddivisi in due brigate di mille uomini ed ancora frazionati in cinque compagnie
chiamate phyle (in greco tribù) che comprendeva 200 operai sotto il controllo di sorveglianti.



Nel cimitero dei costruttori delle piramidi di Giza sono stati trovati scheletri
che sottolineano come fosse fisicamente logorante la vita degli uomini e donne che lavorarono come operai.
A conferma della natura rischiosa di questo tipo di attività
ci sono i numerosi resti mortali che evidenziano fratture al cranio, alle articolazioni,
malattie degenerative dovute allo sforzo fisico compiuto dagli operai
che in media vivevano circa 35 anni (gli uomini).
Gli artisti reali, che godevano dei favori dei sovrani,
potevano invece avere una vita più lunga, circa cinquanta anni,
erano invece le donne che vivevano meno di trent'anni perché i parti potevano spesso avere esiti incerti.
A testimonianza di questa tesi è stata ritrovato lo scheletro di una donna di bassa statura
morta quasi certamente di parto con in grembo ancora il figlio.



Pare che Imhotep, amministratore della Residenza, alto sacerdote a Eliopoli,
architetto, scultore, sovraintendente alla produzione di vasi.
iniziò la propria carriera come fabbricante di vasi di pietra.
Nell'Antico Regno infatti,un discreto numero di artigiani diventarono personaggi importanti.
Il lavoro manuale fu sempre considerato in Egitto come uno dei valori fondamentali della civiltà.


Esistevano numerosi laboratori di oreficeria:
gli artigiani scaldavano l'oro sul fuoco e lo lavoravano con tenaglie.
L’oro liquido veniva versato in stampi delle forme voluta e poi lasciato solidificare.
Con l’oro si ottenevano anche fogli sottili per le decorazioni.
Gli artigiani lavoravano le pietre e con esse davano forma anche a bei vasi decorati.
Usavano seghe per tagliare i blocchi di pietre che poi lavoravano con scalpelli e trapani.
Pietre preziose, provenienti dai paesi del lontano Oriente, venivano usate
per fare collane, praticandovi un piccolo foro.



Si ottenevano perle con la ceramica colorata che servivano per fare amuleti e statue.
La stoffa era ottenuta dalla pianta del lino, che veniva battuta
e ridotta in filo usando il fuso, poi tessuta con il telaio.
La leggenda vuole che si debba alla dea Iside l'invenzione della filatura.
I più vecchi pezzi di tela di lino conosciuti sono stati ritrovati nei granai del Fayoum.
Ben presto, agli albori della storia, gli egiziani hanno cominciato ad usare telai primitivi
preferendo il lino alla lana, considerata una materia impura;
sono diventati poi abili ad usare coloranti organici e a confezionare superbe stoffe
rendendo città come Akhmim, Cairo Vecchio, Fayoum ed Antinoë famose nel mondo.



I falegnami usavano intagliare e legare grossi pezzi di legno.
Dovevano comprare il legname di cedro in Libano perché in Egitto c’erano pochi alberi.
Per impreziosire le tavole usavano tersi (inserimenti) di ebano e avorio.



I fabbricanti di mobilio nell'Antico Egitto erano eccellenti artigiani
se si considera il fatto che data la scarsità del legname locale,
questo doveva essere per la maggior parte importato.
Così, scarseggiando in Egitto le piante di alto fusto,
gli artigiani, utilizzando i tronchi degli alberi che avevano a disposizione come l'acacia o il carrubo,
inventarono abili incastri per unire più pezzi di legno e ottenere così superfici più grandi.
Non venivano utilizzati chiodi di nessun genere ma piccoli pioli di legno.
Incastri, buchi e imperfezioni venivano poi abilmente stuccati e laccati per renderli invisibili.
A volte gli incastri erano così perfetti che non era nemmeno necessario utilizzare la colla.
Gli attrezzi dei falegnami erano alquanto semplici (gli strumenti di metalli erano di rame di bronzo):
con delle seghe a mano venivano segati i tronchi degli alberi a disposizione,
si usava l'ascia per abbozzare il legno ed un coltello ricurvo per modellarlo.
Usavano una specie di pialla per piallare e una pietra abrasiva
per levigare e rendere lisce le superfici.



C'erano inoltre scalpelli, punteruoli e trapani.
Il trapano era ad archetto, un tipo molto comune ancora in uso in Egitto ed il molti altri paesi del Mediterraneo.
Questo strumento manuale di origine molto antica permette, attraverso un moto rotatorio,
di praticare fori in vari materiali come legno, pietra e metallo.
Il tipo ad arco prende il nome dalla corda testa alle estremità dell'asta
a cui viene applicata la punta utilizzata per la perforazione
e destinata ad aumentare la velocità di rotazione dell'utensile.





Come il muratore, anche il vasaio adoperava il fango argilloso del Nilo per la creazione dei suoi manufatti
impastando l'argilla e collocandola poi su di un piccolo tornio azionato manualmente.
Dopo aver modellato il vaso, l'artigiano lo inseriva nel forno per la cottura.
A differenza del falegname il vasaio godeva dell'enorme privilegio
di possedere una grande abbondanza di materia prima.
Questa forma di artigianato si sviluppo enormemente già fin dalla preistoria
e da quel tempo nulla è cambiato nelle tecniche di lavorazione e nella qualità
tanto che oggi è molto difficile datare un comune vaso di terracotta egizio.
Per la sua produzione il vasaio stava seduto per terra davanti ad una semplice ruota
imperniata in un basso piedistallo e la faceva girare spingendola con una mano
mentre con l'altra dava la forma alla creta.



Come oggi la forma della fornace del vasaio era cilindrica.
I vasi appena creati venivano meticolosamente accatastati all'interno del forno
e sopra ad un supporto forato sotto il quale si accendeva poi il fuoco.
I vasi venivano poi coperti da terra o da ceramiche rotte in modo da ottenere così il tiraggio desiderato.
In linea di massima la ceramica di uso comune era molto povera
senza decorazioni artistiche e ornamenti, al massimo si vedevano alcune semplici linee.
Anche se non esiste nessun paragone tra la ceramica egiziana e quella di altre civiltà,
l'Egitto ha il vanto di aver inventato la tecnica dell'invetratura,
tecnica che rende la ceramica assolutamente impermeabile e che permette
di poterla decorare con colori brillanti e permanenti.
Non ci è arrivata nessuna documentazione o antico disegno
che ci possa mostrare questa tecnica ed anche il suo nome egiziano è stato ormai dimenticato.
Il termine utilizzato oggi, "faience" proviene dalla città di Faenza
famosa per la sua industria di ceramica durante il Rinascimento.



Faience è appunto l'invetratura che ricopre i vasi di ceramica detta anche "majolica", dall'isola di Majorca in Spagna.
Sia a Faenza che a Majorca la tecnica dell'invetratura giunse dal mondo arabo durante il Medioevo.
I più antichi oggetti di faience sono le piastrelle che decorano le camere sotterranee di Saqqara,
perline per le collane e piccoli vasi.
Nel Medio Regno si trovano coppe di terracotta smaltata blu, adorne di uccelli e piante palustri tracciati in nero.
Fra le altre produzioni, si possono citare pregevoli figurine di ippopotami blu con i fianchi decorati di piante acquatiche.
I vasi del Nuovo Regno presentano colori e forme più variati, che imitano il calice del loto o la melagrana.
Oltre ai vasi di terracotta, smaltata e no, la pietra fu spesso usata, a partire dalla fine dell'era predinastica,
per la fabbricazione di vasi ornamentali, lavorati a mano;
essi erano ottenuti da pietre durissime, sienite, diorite, serpentina o basalto
e non erano decorati; la purezza della linea, la perfezione della tecnica, la qualità della materia ne costituiscono la bellezza.
Dall'inizio dell'Antico Regno la lavorazione delle pietre dure fu progressivamente abbandonata
e si preferì usare l'alabastro, materiale semitrasparente e più facile da lavorare.
Durante il Nuovo Regno si trovano anche piccoli amuleti, statuette e bambole.





La lavorazione del vetro è attestata in Egitto sin dal IV millenio a.C.
Gli egizi scoprirono che, mescolando sabbia ricca di notevoli quantità di quarzo
e acido silicico puro in forma cristallina con il sodio (che ricavavano dalle ceneri delle alghe)
e gli alcali calcarei, e scaldando il tutto alla temperatura di ottocento gradi,
era possibile ottenere una pasta di vetro (faiace).



Questa pasta, viscosa e di rapido indurimento, si lasciava formare in perline,
in bottigliette o anche in recipienti elegantemente modellati.
Il vetro fuso poteva essere anche colato in uno stampo a parallelepipedo
e,una volta raffreddato,poteva essere molato
come un blocco di pietra, oppure modellato nella forma desiderata con il sistema della cera persa.



Nella seconda metà del II millennio era già usata la tecnica del mosaico,
mentre in epoca tarda divennero famosi i cosiddetti "vetri millefiori".
Questi erano ottenuti da barrette o canne i vetro di diverso colore, disposte a forma di fiore,
assottigliate e tagliate a tessera e, che una volta riscaldate in uno stampo
per farle saldare tra loro,venivano levigate a freddo.
La tecnica per la produzione del vetro, conosciuta molto bene dagli egiziani,
si sviluppò come evoluzione di quella della faience.
Per ottenere una pasta vetrosa simile al nostro vetro i vetrai egiziani fondevano polvere di quarzo e cenere.
Questo tipo di vetro era opaco ma con l'aggiunta di ossidi metallici si potevano ottenere delle meravigliose colorazioni.
Sembra che la produzione del vetro si sviluppo al tempo degli Hyksos
grazie forse ai contatti con il Levante e la Mesopotamia dove questa tecnica pare sia stata inventata.
Le prima realizzazioni appartengono alla XVIII Dinastia, all'epoca degli Amenofi,
ed erano dei piccoli e graziosi contenitori di profumi
costituiti da fili di vetro colorato saldati poi assieme dalla cottura.



I ricercatori pensano che nella produzione del vetro.gli Egizi siano passati attraverso due stadi:
Nel primo stadio, gli Egiziani frantumavano i ciottoli di quarzo in una cenere ricca di alcali e
riscaldavano la mistura a temperature relativamente basse
in piccoli contenitori d´argilla che erano probabilmente giare da birra riciclati.
In seguito, rimuovevano il materiale vetroso risultante dalle giare e lo riducevano in polvere,
quindi lo ripulivano, lo coloravano di rosso o blu con ossidi di metallo.
Nel secondo stadio, gli operai versavano questa polvere mediante imbuti d´argilla
in crogioli di ceramica e lo fondevano ad alte temperature.
Dopo il raffreddamento, rompevano i crogioli per rimuovere i blocchi di vetro che ne mantenevano la forma.
I vetrai egiziani producevano una quantità di forme diverse, per lo più contenitori per cosmetici e recipienti per bevande.
Nonostante la diversità, tutti questi manufatti hanno una caratteristica comune importante,
tipica di tutti gli oggetti in vrtro antichi: sono minuscoli.
C'è un limite alle proporzioni di un recipiente che si può costruire intorno a un nucleo,
ed esisteva un limite anche alla quantità di vetro che si poteva fondere in una fornace primitiva.
Per questo motivo alcuni dei maggiori capolavori dell'arte vetraria egiziana sono di piccole dimensioni.
La testa di un faraone della XVIII dinastia, attualmente al Corning Museum of Glass, ne br un esempio:
fu modellata, presumibilmente, con la tecnica a cera perduta, utilizzando cioè come stampo il guscio di terracotta
che ricopriva l'oggetto modellato in cera probabilmente riempiendolo di vetro finemente polverizzato
e scaldandolo finché il vetro stesso si liquefaceva.



Una curiosa e importante scoperta ad Amarna (tra Il Cairo e Luxor) ci fa conoscere nuovi e vivaci elementi della lavorazione del vetro.
Un'équipe di ricercatori dell'Università di Cardiff (Gran Bretagna), guidata dall'archeologo Paul Nicholson,
ha riportato alla luce i resti di un'antica fornace,in cui veniva fabbricato materiale vitreo;
e, combinando i recenti dati archeologici con le informazioni storiche già note,
ha appurato che il vetro ottenuto era utilizzato per monili, amuleti, oggetti preziosi,
o parti consistenti di manufatti di uso quotidiano.
Ma c'è di più: gli archeologi britannici hanno datato grazie al contesto stratigrafico
l'antica officina, dove la sabbia veniva scaldata e soffiata,
e hanno potuto stabilire che essa venne costruita e utilizzata
durante il regno del faraone eretico Akhenaton
(conosciuto anche come Amenophis IV, sul trono attorno al 1350 a.C. per circa 15 anni).
e della bellissima moglie Nefertiti, che gli diede sei figlie
e che condivise e sostenne il progetto politico e religioso dello sposo.

COMMERCIO

I numerosi reperti archeologici tombali che raffigurano scene quotidiane di compravendita
ci mostrano che il commercio, almeno all'interno del paese, era fondato sullo scambio delle merci.
L'uso del denaro e delle monete coniate non sembra essere esistito.
Per quanto riguarda i generi di prima necessità si scambiavano alimenti
come pesci o legumi con oggetti lavorati come vesti, stoffe o arnesi.



Si può poi ipotizzare un traffico abbastanza intenso di oggetti di lusso,
di monili, di produzioni artigianali esercitato da gente libera
e legato alle classi più abbienti, dai ricchi privati, alle caste
che gravitavano intorno ai templi, a quelle che gestivano i patrimoni reali.
Anche il commercio con l'estero era fondato sullo scambio con prodotti egiziani per lo più di lusso,
Intenso era lo scambio con il Libano da dove venivano importate materie prime
come minerali e in particolare il legname di cui il paese era privo,
che serviva soprattutto nei cantieri navali.
Il prodotto più importato da quella zona era infatti il cedro,
il cui legno era notevolmente apprezzato.



Malgrado le enormi ricchezze di cui disponeva il territorio egizio,
molti erano i beni provenienti da altri paesi.
Prodotti di prima necessità, come l'olio o certi minerali, e anche alcuni articoli di lusso,
tra cui pelli e profumi, venivano infatti importati.
Nella zona intorno a Menfi, vicino a Bubasti, esisteva un importante porto
dove confluivano le genti e le merci dal vicino Oriente.
All'interno del Paesa, un luogo di ritrovo molto importante era il mercato.
I produttori di grano, frutta e legumi vendevano l'eccedenza dei loro prodotti
o li scambiavano con tessuti, mobili e oggetti di lusso;
gli allevatori, portavano al macello i buoi più grossi,
i cui pezzi di carne venivano appesi per la vendita o bolliti in calderoni.
C'erano inoltre mercanti di stoffe, sarti e laboratori dove si lavorava la pelle
che veniva ammorbidita in grandi bacini e tirata su telai,
successivamente veniva tagliata con particolari coltelli.
Infine, appartato, c'era il barbiere
Gli acquisti erano quotidiani, perché il clima non consentiva di conservare gli alimenti.
La maggior parte dei prodotti veniva trasportata al mercato in recipienti di ceramica.



Tra l'altro, un gran numero di commercianti stranieri si stabilì in Egitto,
dove, oltre ad adottare nomi egizi e divenire proprietari terrieri,
abitavano anche in case stupende provviste di servitù.
Durante il regno di Ramesse III, vi fu la presenza di numerosi libici,
i quali commerciarono e scambiarono i loro prodotti (talvolta anche oro) in cambio di alimenti.
Numerose imbarcazioni navigavano lungo il Nilo cariche di ogni genere di prodotti.
Infatti le grandi costruzioni, che caratterizzavano il regno di molti faraoni,
richiedevano grandi navi da carico che, dalle cave di granito dell'Alto Egitto,
trasportavano gli enormi blocchi di pietra.



I commercianti egizi attraversavano il Mar Rosso con le loro imbarcazioni e poi,
via terra, raggiungevano il paese di Opone (Somalia).
Inoltre, venivano impiegate grandi navi per realizzare lunghi tragitti fino alla Siria e alla Palestina.



In definitiva la struttura di vita degli antichi egizi non era molto dissimile da quella di ogni paese agricolo fino a poche decine di anni fa.
I contadini seminavano i campi al ritirarsi delle acque, li curavano, mietevano,
riponevano i cereali nei magazzini sotto lo sguardo dello scriba del padrone;
coglievano il lino, andavano a caccia nel deserto e a pesca nel Nilo.
Ogni dieci giorni c’era festa.
In città lavoravano gli artigiani: vasai, scultori, carrai, mobilieri, orafi, gioiellieri;
nei deserti e nelle miniere lavoravano i cavapietre e i minatori.
All’interno delle case le donne erano intente nei vari lavori di tessitura e filatura.
La giornata a palazzo iniziava presto con la preparazione del pane e dei dolci.
Il pane e i dolci erano a base di frumento e farro.
I cereali venivano pestati e setacciati per separarli dalla crusca,
macinati su di una pietra e impastati con acqua, farina e lievito;
ai dolci si aggiungevano miele, datteri e carrube,  venivano poi fritti e passati nel miele .
Più spazio nella dieta dei contadini avevano pesci e volatili,
ma anche prodotti dell’allevamento, che era molto fiorente
(bovini, ovini, suini e, nel Nuovo Regno, anche iene).





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