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EGIZI




 
 


LA VITA NELL'ANTICO EGITTO

Circa 4000 anni prima di Cristo, un intero popolo emigrò dall’Asia all’Africa Settentrionale,
arrivò sulle sponde di un grande fiume, il Nilo e,
dopo aver cacciato verso l’interno le popolazioni di razza nera
che vi abitavano, costruì una civiltà millenaria.



Il paese, però, era desolato e il fiume, abbandonato a se stesso,
cambiava continuamente letto e quando straripava o trasformava il terreno
in un pantano maleodorante o non arrivava ad irrigare le terre
che rimanevano aride e prive di vegetazione.
La foce era un’immensa palude, cosparsa di isole sabbiose coperte di papiri,
di loti, di enormi canne, attraverso le quali
il fiume scorreva faticosamente, popolato da feroci coccodrilli.
Il Nilo nasce nelle profondità dell’Africa nera,
attraversa il Sudan con i suoi rami principali, Nilo Bianco, Nilo Azzurro,
valica il deserto della Nubia e finalmente arriva in Egitto.
Qui le terre intorno al fiume verdeggiano per il noto fenomeno dell’inondazione:
dove le acque non arrivano c’è il deserto.
Le due zone furono ugualmente importanti:
la valle coltivata forniva il cibo e quindi la vita;
il deserto nascondeva le pietre per le monumentali costruzioni
e tesori minerari quali oro, argento, turchesi.



A poco a poco i nuovi venuti impararono a regolamentare il corso del fiume,
arginandolo, scavando canali per irrigare le terre più lontane.
Questo lavoro durò circa 3000 anni ma, alla fine, la loro fatica fu premiata
e in quella regione si sviluppò una delle più grandi civiltà del mondo antico.
Il Nilo era considerato dagli Egizi una divinità
perché era lui che dava la vita.
Il limo infatti,cioè il fango che egli lasciava sul terreno con i suoi straripamenti,
rendeva le terre estremamente fertili tanto che gli Egizi erano convinti
che gli uomini fossero stati impastati con il fango del Nilo.



Gli Egizi adoravano il sole Rha che, sulla terra era personificato nella figura del re,
il faraone che,per questo motivo viveva in palazzi lussuosissimi
ed era venerato come divinità,vestiva abiti trapunti d’oro,
aveva i capelli lunghi a riccioli. il viso accuratamente raso
e fornito di una barba finta, attaccata sotto il mento,
a forma di dado o di treccia terminante a punta.
Le ciglia erano dipinte di verde, le unghie dei piedi e delle mani in rosso.
Sulla testa portava una specie di copricapo che scendeva dietro le spalle
o una corona sormontata davanti da una vipera
ripiegata su se stessa con la testa di avvoltoio
fatto d’oro e di smalto dorato che era il simbolo della vita e della morte.



Essendo considerato un dio, il faraone, da morto, aveva diritto
ad una sepoltura che ne facesse rilevare l’importanza.
Nacquero per questo motivo le piramidi che erano alte 7, 8 metri,ma anche 150 metri;
venivano costruite in decenni da una massa enorme di gente che lavorava in condizioni disumane.
All’interno della piramide c’erano varie sale ed un tempio
dove si raccoglievano tutti gli oggetti più cari del Re:
cuscini riccamente lavorati, sedie portatili con tendine ecc.
Nella sala dove sorgeva il sarcofago della regina, vi era una tavola di acconciatura
con sopra pettini, specchi, ventagli, scatole di creme,
insomma tutto il necessario per una signora elegante.
Mentre i faraoni vivevano nel lusso, la povera gente viveva
in condizioni davvero miserabili, in capanne, divise
una dall’altra da sentieri tortuosi interrotti da stagni dove veniva attinta l’acqua.
Lì vicino, in un terreno incolto, venivano depositati tutti i rifiuti e le immondizie.



Queste capanne erano costruite con terra o mattoni crudi rivestiti con intonaco di fango.
Le più povere avevano una stanza sola o due stanzette piccolissime;
il tetto era di foglie di palma e così basso che un uomo di altezza media
doveva stare attento a non sfondarlo con la testa.
Le case più ricche, invece, erano costituite da un pianterreno
ben costruito ma senza finestre dove stavano
il bestiame o gli schiavi e un primo piano
con due o tre camere ed una terrazza dove stava la famiglia.
I tetti ed i pavimenti erano fatti con tronchi di palma
divisi in due per la lunghezza e coperti di terra.
Per fortuna le piogge erano molto rare perché, quando pioveva per qualche ora,
i tetti si sfasciavano, le terrazze cedevano e le pareti si sgretolavano.
Gli Egizi, però, non si scoraggiavano; uomini, donne e bambini
si rimboccavano le maniche e si mettevano subito all’opera
facendo risorgere, in poco tempo, i quartieri di fango.
Essi non chiudevano mai la porta perché non c’era niente da rubare;
non c’erano sedie né letti ma solo qualche sgabello, un paio di casse
dove era raccolta la biancheria, stuoie di giunco o di filamenti di palma
che venivano utilizzati come letto e che avevano gli orli
guarniti di punte per tenere lontani i temibili scorpioni.
La sala da pranzo e la cucina erano un’unica stanza
e vi si trovavano delle pietre piatte che servivano per schiacciare il frumento,
una madia per il grano, l’olio ecc., una dozzina di vasi, scodelle.
Appoggiato al muro c’era il focolare alla sommità del quale
c’era un buco nel tetto per il fumo.
Accendere il fuoco era un’impresa perché bisognava sfregare due schegge di selce
finché una scintilla non accendeva delle foglie secche;
per questo motivo si faceva di tutto per tenerlo acceso
e si spegneva solo per la ricorrenza dei morti o se moriva qualcuno.
Nella capanna la divinità aveva il suo posto
perché aveva il compito di tenere lontani gli spiriti maligni.
La vita dell’operaio era molto faticosa: si alzava all’alba
per recarsi al lavoro, vestito semplicemente di un grembiule di cotone



di forma rettangolare, sostenuto da una cintura; portava un berretto in testa ed era scalzo.
In una borsa portava la colazione costituita da due focacce
cotte sotto la cenere ed un paio di cipolle o del pesce secco
o semplicemente un po’ d’olio in cui intingere il pane.
Il suo lavoro veniva pagato in natura con grano, olio, salumi e,
nei giorni di festa un po’ di vino.
Molto importante era la condizione della donna che aveva la possibilità
di fare quello che voleva, di parlare con chi voleva e di uscire a viso scoperto.
Si alzava all’alba, ravvivava il fuoco, preparava la colazione
per il marito e mandava le bestie al pascolo sotto la guida dei figli.
Si lavava al fiume e poi, caricatasi sul capo una brocca d’acqua,
se ne tornava a casa a preparare il pane.
Quest’operazione era molto faticosa in quanto bisognava gettare
su una pietra il grano, schiacciarlo e dopo molta fatica
riusciva ad ottenere una farina grossolana a cui aggiungeva un po’ d’acqua
e un po’ di pasta fermentata e da cui ricavava poi
delle focacce rotonde che metteva a cuocere fra due pietre calde sotto la cenere.
Questo pane non aveva di certo un odore invitante
ed inoltre aveva un sapore un po’ acido oltre ad essere piuttosto duro.
Compito della donna era anche quello di procurare il combustibile
che veniva ricavato dallo sterco degli animali che,
dopo essere stato impastato e messo in stampi di mattonelle,
veniva messo al sole a seccare.
Questo combustibile aveva la capacità di bruciare lentamente
e di produrre un buon calore.
Dopo aver provveduto alle faccende domestiche, la donna doveva tessere
e tagliare i vestiti, cucirli e rattopparli,
andare al mercato a vendere polli, uova, burro e tela.
A quindici anni era già madre e a trenta già nonna.
Il “vestiario” dei bambini era costituito da un braccialetto da polso
o da una grossa treccia di capelli.
Appena cominciavano a camminare dovevano rendersi utili
raccogliendo foglie secche o sterco di animali.
Più grandi iniziavano a portare al pascolo le bestie
e dai sei agli otto anni andavano a scuola e poi ad imparare un mestiere.
La scuola era tenuta da un vecchio maestro
che insegnava loro a scrivere, a leggere e a fare i conti.
Se uno scolaro dimostrava impegno, intorno ai dieci, dodici anni
veniva mandato da uno scriba (uno dei pochi a sapere leggere e scrivere)
e passava mesi a copiare lettere, documenti ecc.



Generalmente non capiva niente di quello che faceva
in quanto il suo compito era solo quello di imparare a memoria il più possibile.
Quando riusciva a imparare il mestiere di scriba,
aveva un posto assicurato e poteva sposarsi se aveva raggiunto i diciotto anni.
Secondo gli Egizi la vita era infinita e la morte non esisteva;
si moriva solo per qualche cosa o perché uccisi da qualcuno.
La malattia era dovuta agli spiriti maligni che entravano
nel corpo di un uomo succhiandogli il sangue e facendolo deperire a poco a poco.
Per guarire un malato, quindi, occorrevano due cose:
scoprire lo spirito e il suo nome e poi distruggerlo
e questo era il compito degli stregoni.
Secondo gli Egizi l’anima era uguale al corpo e quindi,
quando nasceva un bambino, nasceva anche il suo doppio o Kâ
che seguiva fedelmente l’individuo fino alla morte.
Stava seduto accanto alla mummia, quando l’uomo moriva
finché duravano i viveri che era usanza depositare nella tomba,
poi, assalito dalla fame usciva in cerca di cibo.
Gli Egizi pensavano che ci fosse una vita dopo la morte
e che l’anima, dopo essere rimasta qualche tempo nella tomba,
>ne uscisse e si recasse al cospetto del dio Osiride.



Se il parere di questo dio era favorevole, l’anima poteva entrare
nei campi delle fave che erano di una fertilità inesauribile
dove i morti potevano lavorare e, quando erano stanchi
potevano essere sostituiti dai loro “rispondenti”
cioè delle statuine che per questo scopo venivano chiuse nelle loro tombe



 





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