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FAMIGLIA

Per capire veramente la società medievale bisogna studiare
l'organizzazione della famiglia; è questa la "chiave" del Medioevo
ed è la sua caratteristica più originale.
Il Medioevo è un'epoca in cui tutti i rapporti si rifanno al modello familiare:
quelli del feudatario con il suo vassallo, quelli dell'artigiano con il suo apprendista.
In sintesi tutta la vita medievale si spiega con l'ordinamento
delle famiglie che vi sono vissute.

L'importanza di un paese si valutava dal numero dei "focolari"
e non dal numero della popolazione.
Nelle leggi e nei costumi, ogni disposizione era rivolta
al bene della famiglia o all'interesse della casata oppure,
ampliando tale concetto di famiglia, ad una cerchia più vasta,
all'interesse del gruppo o della corporazione,
la quale non era che una famiglia più grande.
I grandi baroni erano, anzitutto, dei padri di famiglia,
che raccoglievano intorno a sé, tutti coloro che, per nascita,
facevano parte del patrimonio feudale e le loro contese
erano principalmente lotte familiari.
Quindi la famiglia, durante il Medioevo, continuò ad essere
la cellula fondamentale della società.
Dominata dalla ferrea disciplina dettata dal padre,
serviva a proteggere e sostentare i figli,
ma anche a reprimerli e punirli.
La struttura familiare era fondamentalmente patriarcale.
Il padre aveva autorità ed esercitava un potere effettivo
su tutta la famiglia che cresceva e si allargava intorno a lui.
La “famiglia” era anche tutto un complesso di persone
su cui la moglie doveva vegliare ordinandone i ritmi e le attività.

In primo luogo il marito, che contava di trovare, nel calore del focolare,
il riposo ed i piaceri del bagno caldo, della tavola servita,
del letto pronto (quando tornava esausto dalle sue tribolazioni
legate alla vita fuori di casa), poi i servitori,
quando la famiglia era abbastanza agiata da averne.
La sposa aveva il dovere di dirigerli e di punirli quando
il loro comportamento rischiava di danneggiare gli interessi dei padroni.
La prima educazione dei figli, poi,  le spettava senza discussione.
La donna, in sostanza, doveva assicurare la coesistenza pacifica
di tutti i membri, ognuno con i propri bisogni.
La pace, avrebbe dovuto fare della sua casa un riflesso
dell’armonia del mondo se la sua natura, a dispetto delle briglie
che le s’imponevano, dei sermoni che le si indirizzavano,
non venisse subdolamente a turbare ciò
 che sarebbe stato suo compito promuovere.
Le donne (così pensavano i dottori e chierici, del tempo),
sono: false, volubili ed ingannatrici.
Il rimprovero principale che gli uomini muovevano alle donne,
era che le donne parlano troppo e la loro chiacchiera
toglie la calma alla casa e fa trapelare i segreti al di fuori.

L’insubordinazione delle donne, del resto, non era solo oggetto
del biasimo dei mariti, ma incorreva anche nella sanzione collettiva,
in quanto metteva in pericolo l’ordine stesso del mondo
 e suscitava riti in cui la redenzione passava attraverso lo scherno.
Uno di questi era il rito della cavalcata dell’asino, che serviva
a punire l'eccessivo “rovesciamento” dei ruoli coniugali.
Se la donna dominava il marito, lo strapazzava e lo menava per il naso,
lo sposo o chi ne faceva le veci, doveva percorrere il villaggio,
seduto alla rovescia su un asino, tenendone la coda.
Non c’era sfera privata, in cui gli individui potessero regolare
i loro contrasti, senza dover fare i conti
con l’intervento di censori esterni.
Vi era poi, una tutela ininterrotta del padre sui figli.
Per i maschi sino alla maturità fisica ed intellettuale
oppure fino all'abbandono del tetto paterno
e per le femmine fino al matrimonio, momento in cui la ragazza,
passava dall'autorità paterna a quella del coniuge.
Era comunque il padre a decidere se e con chi
sposare le sue figlie oppure se mandarle a servizio
o in convento, a seconda della convenienza economica.
Era sempre il padre a scegliere il mestiere del figlio.
Bisogna però notare che gli uomini d'affari erano, come oggi,
molto spesso in viaggio e che, in loro assenza,
era la madre a governare la casa ed i figli, spesso
addolcendo le ferree direttive paterne.
L'educazione dei ragazzi, infatti, era affidata, fino alla
pre-adolescenza, alle donne della casa: madri, nonne e zie.

I bimbi crescevano infatti nel cosiddetto gineceo,
dove i maschi restavano solo fino a sei, sette anni,
momento in cui venivano mandati a scuola o, se ricchi,
passavano alle cure di un tutore.
I maschi erano poi, spesso inviati, ancora bambini,
presso un signore più potente del loro padre, perché imparassero
le regole della cortesia, cioè le buone maniere in uso presso le corti
e diventassero esperti nell’arte militare.

Da grandi avrebbero preso il posto del padre oppure
sarebbero diventati abati, vescovi o cavalieri.
A quattordici anni iniziava la loro emancipazione, in quanto
a quell'età cominciavano l'apprendistato di un'arte o un mestiere
e intraprendevano l'educazione sessuale, grazie alle serve del padre.
A diciotto anni, infine, i maschi erano legalmente emancipati,
ma non come lo intendiamo oggi.
Dopo il diciottesimo anno di età, i padri potevano decidere
se continuare a mantenere i propri figli oppure mandarli via da casa.
L'autorità paterna era comunque indiscutibile e cessava solo con la sua morte.
A quel punto erano i figli maschi ad ereditare il potere.
Erano i figli che vigilavano sull'onore della madre e delle sorelle
ed erano spesso più implacabili del loro genitore.
Le femmine, se non erano poste in convento per risparmiare sulla dote,
venivano maritate giovanissime con qualcuno scelto
 dal padre per rinsaldare le alleanze familiari.
Per il fidanzamento era sufficiente che gli sposi
avessero compiuto sette anni, ma si combinavano
 matrimoni anche fra  bambini più piccoli.
Una volta maritate, il compito delle donne era
di mettere al mondo numerosi figli, perché le famiglie nobili
ritenevano importantissimo garantirsi una discendenza.
Se la sposa era sterile il marito poteva ripudiarla.

Nel Medio Evo il matrimonio aveva una funzione prevalentemente politica
di accordi e di alleanze, per lo meno nelle classi privilegiate.
Il vincolo di sangue divenne legame di solidarietà fra i gruppi
e l’ambito familiare venne sostituito dal casato
e dalle consorterie nobiliari, come esperienze di potere politico e militare.
Non mancano gli esempi di matrimoni che, utilizzando le donne,
instaurarono o restaurarono dei legami di amicizia fra due lignaggi.
I primi a ricercare simili unioni furono certamente i capi stessi della cristianità:
un re di Francia, Enrico I, nel secolo XI, andò a cercarsi una sposa
nel lontano principato di Kiev, in Russia.

Ad un grado più basso della gerarchia sociale, negli ambienti patrizi,
dei secoli XIII – XIV, vecchi odi ed interminabili vendette
si concludevano allo stesso modo, con uno scambio di donne,
anche se, ovviamente, guerre, private o no, divampavano
talvolta, quando l'unione falliva.
Nel contempo si andavano diffondendo le parole di Sant'Agostino,
che imponeva l'obbligo di non sposare persone con cui
si hanno vincoli di parentela, ossia l'ingiunzione di esogamia,
dovuto alla necessità di fondare la società sulla "carità"
e l'amore che due persone unite in matrimonio si devono a vicenda.
Anche per esercitare le nuove attività mercantili o artigiane
o per chi viveva nelle campagne del lavoro della terra,
la famiglia era una cerchia di persone raccolte sotto l’autorità del padre,
ma soprattutto raccolte intorno ad un unico patrimonio.
Fino al 1000 in Italia il matrimonio si svolse secondo l’uso longobardo,
che consisteva in una compravendita della donna, considerata
semplicemente una cosa, anche se fu Liutprando ad introdurre
il principio della sacralità del matrimonio e il rito dell’anello nuziale
con il quale l’uomo “impegna la donna e la fa sua”.

Successivamente gli antichi istituti romani ripresero il sopravvento
e fra questi il più importante fu la dote.
Ancora nel X secolo era lo sposo che, secondo l’uso germanico, la portava alla sposa.
Il connubio veniva combinato dal padre della ragazza (se questa era orfana,
dal tutore) che stipulava un vero e proprio contratto col futuro genero.
Costui donava al suocero una pelliccia di volpe e ne riceveva in cambio il mundio,
col quale gli veniva riconosciuto il possesso e assegnata
la tutela della donna che s’accingeva a sposare.
Dante (1265-1321), nella Commedia, ricorda che in un passato
non lontano, la nascita di una figlia non costituiva motivo
di preoccupazione per i genitori, mentre, ai suoi tempi,
l’ammontare della dote era diventato talmente alto
che la nascita di una femmina era considerata quasi una disgrazia.
Alcuni anni dopo il cronista Giovanni Villani, 1280 ca.-1348,
sosteneva addirittura che le eccessive spese dotali
avevano finito con il ridurre il numero dei matrimoni.
I matrimoni erano molto precoci e una donna a 25 anni
era già considerata una zitella senza speranze.
Anche se la Chiesa si opponeva ai matrimoni troppo precoci,
con una buona somma di denaro era facile ottenere la dispensa,
con la quale anche i lattanti potevano sposarsi.
Fu nel X secolo che il sacerdote cominciò ad assistere
al matrimonio che si celebrava sul sagrato.

La cerimonia cominciava davanti alla casa della sposa, dove si formava il corteo
che, snodandosi attraverso le vie della città, muoveva fino alla chiesa.
Lo guidava la sposa, scortata da due paggetti che reggevano
una pianticela di rosmarino, seguiti da una specie di fanfara
o da un gruppo di vergini vestite di bianco.
Chiudevano la processione, i parenti e gli amici.
Sulla soglia della chiesa il prete e lo sposo attendevano il corteo.
Il prete interrogava la coppia in merito all’età, consanguineità
e libero consenso reciproco e dei genitori e la coppia
ripeteva il giuramento solenne fatto in occasione del fidanzamento.
Il prete pronunciava una breve omelia sulla vita coniugale
e benediceva gli anelli, lo sposo infilava l’anello nel terzo dito della
mano sinistra della sposa, pronunciando la formula dell’impegno:
"Con questo anello ti sposo, con quest’oro ti onoro, con questa dote ti doto".
La donna allora si prostrava ai piedi del suo signore.
e dopo la distribuzione delle elemosine ai poveri
si entrava in chiesa per la messa nuziale,
dove gli sposi,  inginocchiati, venivano benedetti sotto il velo
a meno che non si trattasse di seconde nozze.
Alla messa seguiva il banchetto nuziale che spesso veniva allestito
nella navata centrale della chiesa e durava fino a sera
. con laute bevute e regali, giochi e intrattenimenti,
balli che coinvolgevano anche il pubblico.
Poi gli sposi accompagnati dagli amici e parenti
che spargevano al loro passaggio chicchi di grano,
sinonimo di buon auspicio e fecondità,
si recavano nella casa dello sposo.
Si dirigevano subito verso la camera da letto e si spogliavano
davanti a tutti in attesa del prete che doveva venire a benedirli,
a spruzzarli di acqua santa e a cospargerli d’incenso,
per cacciare il demonio che stava sempre in agguato.
Il prete benediceva la stanza e poi di nuovo la coppia:
declamando: "Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe,
benedici questi adolescenti e spargi
nei loro cuori il seme della vita eterna".
A mezzanotte gli sposi licenziavano gli amici e si calavano
 nell’alcova costruita a mo’ di baldacchino per nascondersi
dagli sguardi indiscreti dei servi.
In teoria, per tre notti, le cosiddette notti di Tobia,
non doveva succedere niente, pena la scomunica,
(secondo la tradizione, infatti,  Tobia e Sara attesero tre notti
prima di accoppiarsi, per tenere lontano il demonio e avere figli sani),
ma nella realtà il matrimonio veniva regolarmente consumato.

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Nei castelli feudali vigeva il cosiddetto “jus primae noctis”
locuzione latina (in italiano: "diritto della prima notte") che indicherebbe
il diritto, di un signore feudale di trascorrere, in occasione del matrimonio
di un proprio servo della gleba, la prima notte di nozze con la sposa.
È talvolta impropriamente indicato con l'espressione francese "droit du seigneur",
letteralmente "diritto del signore", che faceva in realtà riferimento
a un'ampia gamma di diritti riconducibili al signore feudatario,
inerenti quindi anche la caccia, le tasse, l'agricoltura.

Non vi sono testimonianze della diffusione di tale diritto nell'Europa medievale.
Pare anzi che sia un mito inventato nel 1526 dallo scozzese Hector Boethius.
che scrivendo una Storia della Scozia a partire dall'epoca celtica
e parlando delle riforme attuate da re Malcolm III Canmore,
vissuto nell’XI secolo, introdusse il passo seguente:
«... fu abrogata una usanza pessima e vergognosa instaurata dal tiranno Evenus
che consisteva, per i signori dotati di potere, di godere la primizia della verginità
di tutte le spose del loro territorio. Da allora lo sposo poteva riscattare
quella notte versando al signore mezza marca d'argento;
essi sono ancora oggi tenuti a versare questa somma,
che è chiamata comunemente "merchet della donna"»
Il mito attecchì con straordinaria fortuna e la storiella del mai esistito
tiranno Evenus fu presa per buona senza che nessuno si prendesse la briga
di controllare su quale base documentaria si fondasse.
Anche se storicamente un falso, questo mito rimase molto vivo
nel sentimento popolare e nei racconti e nelle leggende di paese
tanto che molte sono le testimonianze sul diritto della prima notte in cui
la giovane maritata doveva concedersi nella sua purezza al signorotto locale.
Su questo argomento Pasquale Festa Campanile nel 1972
ha girato un film, in cui si racconta la storia
di Ariberto de Ficulle, un nobile entrato in possesso di un piccolo feudo,
sposando la bruttissima Matilde di Montefiascone
Ariberto è un tiranno che domina assillando gli infelici feudatari
con tasse e soprusi di ogni genere fino a quando un certo Gandolfo gli si ribella.
Quando pretende di esercitare il diritto della prima notte sulla giovane sposa di Gandolfo,
questi si solleva definitivamente contro di lui.

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Gravidanza, Maternità e Cura dei figli

 





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