Privacy Policy MEMORIA LILIANA SEGRE

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LILIANA SEGRE

Storia di una sopravvissuta

Nata a Milano, in una famiglia laica di origine ebraica, orfana di madre, visse col padre,
Alberto Segrein corso Magenta insieme ai due nonni paterni felice, amata, viziata.
La madre, Lucia Foligno, era morta quando Liliana non aveva neanche compiuto un anno.
La vita di questa famigliola era semplice ma agiata; frequentavano l’Ippodromo di San Siro,
la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria.
Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo.
Poi, nel 1938, le leggi razziali, le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici,
la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini,
l’incomprensibile espulsione dalla scuola.

«Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile,
che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”;
perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre».
«Mi ricordo che quando andai in una scuola privata e ripassavo dalla via Ruffini,
dove avevo fatto la prima e la seconda elementare, incrociavo certe bambine,
che erano state mie compagne, che mi segnavano col dito e dicevano:
"quella lì è la Segre. Non può più venire a scuola perché è ebrea"».

Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo;
un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina,
presso degli amici, utilizzando documenti falsi.

«Era l’11 settembre 1943. Avvenne allora la mia prima separazione dagli affetti familiari.
Quel giorno feci la valigia e partii con il signor Pozzi, sfollato in Val d’Ossola, in Piemonte»

Il signor Pozzi era un fornitore della ditta tessile del padre di Liliana.

 «In quel piccolo bagaglio - ricorda Liliana - misi una specie di quadernone rilegato
che si chiamava Album dei Ricordi e in cui le mie amiche
avevano scritto un pensierino.
Poi un maglione e delle scarpe di ricambio».
«Quel Pozzi fa parte degli amici eroici. Era venuto a prendermi per mettermi in salvo;
io non volevo andare, ma mio padre mi obbligò, fu irremovibile.
Il signor Pozzi e la sua famiglia mi tennero nascosta con documenti falsi per oltre un mese, finché poterono.
Quando i tedeschi iniziarono a fare controlli sui documenti, mio padre capì che non ero più al sicuro».
Un’altra fuga.
Un’altra famiglia.
«Rimasi a Castellanza, in provincia di Varese, per tutto il mese di novembre del 1943,
a casa di Paolo Civelli, un amico fraterno di papà.
Ma anche lì non ero a casa mia».

Liliana Segre rivide il padre
il 10 settembre 1943 quando il padre e due cugini, cercarono di fuggire a Lugano, in Svizzera.

«La storia di questa fuga grottesca la racconto sempre, quando vado a testimoniare nelle scuole,
perché sulle prime mi sentivo un’eroina, sui valichi dietro Varese.
Era inverno e attraversavamo i boschi, io e mio papà: passavamo il confine come clandestini,
come animali sulle montagne.
> un ufficiale svizzero tedesco
ci trattò come degli imbroglioni.
Per quella guardia di frontiera eravamo dei bugiardi: <
non era vero che gli ebrei in Italia venivano perseguitati<
e ci respinse, ci consegnò agli italiani, condannandoci a morte».

Così Liliana e suo padre finirono in carcere: prima a Varese, poi a Como, infine a San Vittore a Milano,
>in quel Quinto raggio che il fascismo aveva destinato agli ebrei.
Lui nel reparto maschile, lei in quello femminile, sola, senza nemmeno più la sua valigia e il suo album:

«Non avevo più nulla, nemmeno gli indumenti di ricambio.
Ricordo solo una grande sporcizia e l’impossibilità di fare il bucato.
Quando arrivò l’ordine di deportazione, capii che il bagaglio non mi sarebbe più servito».
«Negli ultimi giorni di gennaio il quinto raggio del carcere di San Vittore si era riempito di ebrei
che arrivavano da tutta Italia; eravamo circa settecento.
[…] A un certo punto, credo nel pomeriggio, entrò nel raggio un tedesco che lesse
i nomi di quelli che sarebbero partiti il giorno dopo per ignota destinazione.
Erano circa 600 nomi, non finiva più. […]
Noi tutti ci preparammo a partire; ci furono distribuiti dei cestini
di carta con sette porzioni di gallette, sette di mortadella,
sette di latte condensato. Perché sette?
 Come facevo a guardare mio Papà? »<
«Come facevo a chiedergli la ragione di quello che ci stava accadendo?
In quelle ultime ore a San Vittore tacevo; ma ogni tanto mi allontanavo da Lui,
correvo come una pazza su su fino alle grandi celle comuni dell’ultimo piano
per vedere tutta quella gente sconosciuta che si preparava a partire, con gesti uguali.
Era la deportazione annunciata, ne facevo parte anch’io, la principessa del mio Papà.»
«La mattina dopo, il 30 gennaio 1944, una lunga fila silenziosa
e dolente uscì dal quinto raggio per arrivare al cortile del carcere.
Attraversammo un altro raggio di detenuti comuni.
Essi si sporgevano dai ballatoi e ci buttavano arance, mele, biscotti, ma, soprattutto,
c i urlavano parole di incoraggiamento, di solidarietà e di benedizione!
Furono straordinari; furono uomini che, vedendo altri uomini andare al macello
solo per la colpa di essere nati da un grembo e non da un altro, ne avevano pietà.
Fu l’ultimo contatto con esseri umani.
Poi caricati violentemente su camion, traversammo la città deserta e,
all’incrocio di via Carducci, vidi la mia casa di corso Magenta 55
sfuggire alla mia vista dall’angolo del telone: mai più.
Mai più.»
«Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi
passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti;
fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio.
Il passaggio fu velocissimo.
SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate ci caricarono sui vagoni bestiame.
Non appena un vagone era pieno, veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza.
Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà.
Tutto si era svolto nel buio, nel sotterraneo della stazione, illuminato da fari potenti,
tra grida, latrati dei cani, fischi e violenze terrorizzanti.

Suo padre era con lei.

«Imparai in fretta - racconta Liliana - che lager significava
morte, fame, freddo, umiliazioni, torture, esperimenti
Nel vagone buio c’era solo un po’ di paglia per terra, e un secchio per i nostri bisogni»

Da questo binario, tra il 1943 e il 1945, partirono 15 convogli stipati di migliaia di ebrei
destinati alle camere a gas, a causa della persecuzione nazifascista.

«Dal vagone piombato non potevo vedere nulla, solo percepire l’alba e il tramonto,
avevo perso la cognizione del tempo non sapevamo dove stavamo andando,
dove ci avrebbero portati, intuivo solo che quello sferragliare delle ruote del treno <
mi allontanava sempre più da casa.
Ricordo il dondolio, il buio, i miei stati d’animo.
Non avevo più fame né sete».
«Dalle grate vedevamo la campagna emiliana nelle brume dell’inverno e stazioni deserte dai nomi familiari.
Gli adulti dimostravano un certo sollievo visto che il treno non era diretto al confine;
alla sera però ci fu un’inversione di marcia e quella notte nessuno dormì.
Tutti piangevano, nessuno si rassegnava al fatto che stavamo andando al nord,
verso l’Austria; era un coro di singhiozzi che copriva il rumore delle ruote.
Dai vagoni piombati saliva un coro di urla, di richiami, di implorazioni: nessuno ascoltava.
Il treno ripartì.
Il vagone era fetido e freddo, odore di urina, visi grigi, gambe anchilosate;
non avevamo spazio per muoverci.
I pianti si acquietavano in una disperazione assoluta.»
«Mi prese una specie di inedia allucinata come quando si ha la febbre alta;
quando riuscivo a riflettere pensavo che forse, senza di me, Papà avrebbe potuto scappare da San Vittore,
saltare quel muro come aveva proposto un altro internato, Peppino Levi o forse no.
Mi stringevo a Lui, che era distrutto, pallido, gli occhi cerchiati di rosso di chi non dorme da giorni.
Mi esortava a mangiare qualcosa, aveva ancora per me una scaglia di cioccolato;
la mettevo in bocca per fargli piacere, ma non riuscivo a inghiottire nulla.
Nel centro del vagone si formò un gruppo di preghiera: alcuni uomini pii,
fra i quali ricordo il signor Silvera, si dondolarono a lungo recitando i Salmi;
mi sembrava che non finissero mai: erano i più fortunati.»

«Le ore passavano, così le notti e i giorni, in un’abulia totale: era difficile calcolare il tempo.
Pochissimi avevano ancora un orologio e anche quei pochi privilegiati non lo guardavano più.
Ogni tanto vedevo qualcuno alzarsi a fatica per cercare di capire dove fossimo, guardando dalle grate
schermate con stracci per riparare dal gelo quel carico umano.
Si vedeva un paesaggio immerso nella neve, si vedevano casette civettuole, camini fumanti, campanili…
Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere
tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo.
Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone:
“Auschwitz bei Katowice”.
Capimmo che quella era la nostra meta.
Il treno ripartì quasi subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta disperazione.
Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni.
Nessuno più piangeva, né si lamentava.
Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza degli ultimi momenti.
Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi.
Non c’era più niente da dire.
Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo
il nostro amore come un ultimo saluto.
Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno.
Poi, poi, all’arrivo fu Auschwitz e il rumore assordante
e osceno degli assassini intorno a noi.

 Il convoglio raggiunse il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dopo sette giorni di viaggio.
Auschwitz si presentò agli occhi di Liliana come un’enorme spianata di neve: intorno freddo e desolazione.

«Una volta scesi dal treno - ha scritto la senatrice nel suo libro Fino a quando la mia stella brillerà
ci ritrovammo subito circondati da tanta gente:
c’erano i prigionieri del campo che avevano l’ordine di smistare le valigie,
c’erano i soldati nazisti che smistavano noi, le guardie con i cani al guinzaglio che abbaiavano».


 Era il 6 febbraio 1944.
Dei 605 prigionieri ebrei, circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore.
Al momento della selezione sulla rampa, mentre gli uomini venivano rapidamente divisi dalle donne,
Liliana avrebbe sentito la mano del padre sciogliersi dalla sua;
lo avrebbe visto allontanarsi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima immagine che avrebbe conservato di lui.

Il 18 maggio 1944 anche i suoi nonni paterni furono arrestati, deportati ad Auschwitz
e uccisi nelle camere a gas lo stesso giorno dell'arrivo, il 30 giugno 1944.
Alla selezione, Liliana ricevette il numero di matricola 75190, che le venne tatuato sull'avambraccio sinistro.

Liliana fu destinata a lavorare presso la fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens,
insieme ad altre 700 donne e ragazze, che facevano i turni giorno e notte.

 «Mi avevano internata nel settore femminile del complesso di Auschwitz-Birkenau, oggi in Polonia.
Con il passare dei giorni smisi di piangere, iniziai a chiudermi in me stessa, non parlavo più »

Lavorò in quella fabbrica  per circa un anno
Durante la sua prigionia subì altre tre selezioni, in una delle quali
perse un'amica che aveva incontrato nel campo,
una ragazza francese di nome Janine
che si era ferita gravemente a una mano.
Mentre, durante la selezione, ne veniva decretata la condanna a morte immediata,
Liliana Segre confessa di non essersi voltata:

«Avrei voluto farlo, solidarizzare con Janine. Non lo feci.
È un pensiero che mi tormenta sempre».

Quell’anno e mezzo passato nel campo di concentramenti e sterminio, per Liliana resta un incubo ancora oggi.
Ha tuttora ben impresso nella mente il ricordo di quando doveva mettersi in fila nuda per la selezione,
della baracca dove dormiva, del vestito a righe, della stella gialla, dei pidocchi e del freddo.
Quell’inferno durò fino alla metà di gennaio del 1945 quando, con l’avanzare dei russi,
i nazisti decisero di evacuare il campo.

«Per capire Auschwitz ci vorrebbero molte vite» dice spesso,
ma a guardare i suoi occhi fondi è come se le avesse percorse tutte:
ha dovuto abbracciare e consolare la bambina che era e, una volta diventata madre e nonna
– sconfiggendo orgogliosamente la perversa ideologia che avrebbe voluto
cancellare dal mondo lei e la sua discendenza – accogliere in sé dapprima  la figura del padre
poi quella dei nonni, in una progressiva maternità che cancella la distanza tra le generazioni.
Man mano che i ricordi riaffiorano ora che sa cosa significhi voler proteggere i propri figli
Liliana capisce con più lucidità lo scoramento del padre per non averla potuta proteggere,
la fatica dei nonni nel salire il predellino del vagone bestiame – spinti e picchiati –
risentita quasi nelle ossa man mano che le sue stesse movenze si fanno più caute,
la solitudine di Janine, diventata nel tempo sorella e poi figlia,
da riaccogliere e confortare ogni giorno in un abbraccio materno.

 Alla fine di gennaio del 1945, dopo l'evacuazione del campo, affrontò la marcia della morte verso la Germania.
durante la quale i prigionieri furono costretti a seguire i nazisti in fuga.

Durante la marcia della morte che Segre ha ricordatoun evento di cui spesso non si parla
i nazisti eliminarono gran parte dei deportati,
tra i quali molti ebrei, ma anche persone d’origine rom, prigionieri di guerra, omosessuali.
«Una gamba davanti all’altra» -
racconta Segre
proseguivano senza la possibilità di appoggiarsi gli uni agli altri, mangiando la neve dove non era sporca di sangue,
essendo tutti “pazzamente attaccati alla vita”.

Quando i nazisti capirono che era finita, si tolsero la divisa per nascondersi tra la popolazione civile.
Una SS gettò a terra la sua pistola.
 Un pensiero passò per la testa della giovane Liliana:

«Prendo l'arma e la uccido».

Poi si bloccò.

 «No, non la prendo».

E in quel momento, dice la Segre,

«ha vinto la vita».

Venne liberata il 1º maggio 1945 dal campo di Malchow, un sottocampo
del campo di concentramento di Ravensbrück  dall'Armata Rossa.
Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati ad Auschwitz,
Liliana fu tra i 25 sopravvissuti.
Al rientro nell'Italia liberata, visse inizialmente con gli zii e poi con i nonni materni,
di origini marchigiane, unici superstiti della sua famiglia.
Per molto tempo non ha voluto parlare pubblicamente della sua esperienza nei campi di sterminio.
Come per molti bambini dell'Olocausto, il ritorno a casa  fu tutt'altro che semplice.
Anche Liliana Segre ricorda di non aver trovato in quegli anni orecchie disposte ad ascoltarla.

Era molto difficile per i miei parenti convivere con un animale ferito come ero io:
una ragazzina reduce dall'inferno, dalla quale si pretendeva docilità e rassegnazione.
Imparai ben presto a tenere per me i miei ricordi tragici e la mia profonda tristezza.
Nessuno mi capiva, ero io che dovevo adeguarmi ad un mondo che voleva dimenticare
gli eventi dolorosi appena passati, che voleva ricominciare,
avido di divertimenti e spensieratezza.»

Lentamente Liliana Segre ritornò alla vita, e nel 1948 conobbe Alfredo Belli Paci
mentre si trovava in vacanza al mare, a Pesaro.
Entrambi condividevano un pesante passato: tutti e due avevano conosciuto<
gli orrori dei campi di concentramento nazisti.
Lui perché non aveva aderito alla Repubblica di Salò.

 Nel 1951 si sposarono e dal loro amore nacquero tre figli.
Il matrimonio di Liliana Segre e Alfredo Belli Paci fu messo a dura prova dall'adesione di lui
alla lista del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale,
guidato dall'ex funzionario della RSI Giorgio Almirante.
Le acque si calmano solo quando Alfredo abbandonò la politica.

Nel 1997 è stata fra i testimoni del film-documentario Memoria,
presentato al Festival internazionale del cinema di Berlino
Nel 2009 la sua voce fu inclusa nel progetto di raccolta dei "racconti di chi è sopravvissuto",
una ricerca condotta tra il 1995 e il 2008 da Marcello Pezzetti
per conto del Centro di documentazione ebraica contemporanea,
che ha portato alla raccolta delle testimonianze di quasi tutti i sopravvissuti italiani
dai campi di concentramento in quegli anni ancora in vita
Nello stesso anno, partecipò al film/documentario Binario 21 di Moni Ovadia, diretto da Felice Cappa,
che si ispirava al poema del poeta di origine russa Itzhak Katzenelson
Il canto del popolo ebraico massacrato.
Ha ricevuto molte lauree honoris causa:  dall'Università di Trieste la laurea in giurisprudenza,
dall'Università degli Studi di Verona la laurea Scienze pedagogiche.
Nel 2018 le venne conferito il titolo di "Membro onorario del Corpo Accademico"
dall'Università degli Studi "Gabriele d'Annunzio" di Chieti
Nello stesso anno ha ricevuto il Premio Passaggi, assegnato da Passaggi Festival a personalità
che si sono distinte per l'attività di saggistica o per la loro figura morale.
Il 19 gennaio 2018, anno in cui ricadeva l'80º anniversario delle leggi razziali fasciste,
il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in base all'art. 59 della Costituzione,
l'ha nominata senatrice a vita
"per avere illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale".

È stata la quarta donna ad assumere tale incarico, dopo Camilla Ravera (1982),
Rita Levi-Montalcini (2001) ed Elena Cattaneo (2013).
Il 5 giugno 2018, durante la discussione per il voto di fiducia al governo Conte I,
è intervenuta per la prima volta in Senato, ricordando le leggi razziali e il suo ricordo di deportata,
suscitando il plauso di tutto il Senato.
Ha inoltre dichiarato la sua ferma intenzione di opporsi a qualunque legge discriminatoria
contro i popoli nomadi e le minoranze e di astenersi dal dare la fiducia al nuovo governo.
La senatrice si è inoltre opposta con fermezza all'abolizione del tema di ambito storico dall'esame di maturità.
Minacciata di morte e insultata è stata messa sotto scorta dal 7 novembre 2019.
Le frasi che si leggono on line sono efferate come questa.
La senatrice a vita Segre sta bene in un simpatico termovalorizzatore».
A proposito dei messaggi squallidi che le vengono rivolti, Segre spiega che in realtà,
«non ne ho letto neanche uno, sono talmente vecchio stile che sui social non ci sono proprio».

Il 10 settembre 2019, in occasione del voto di fiducia sul secondo esecutivo
guidato da Giuseppe Conte ha deciso di votare a favore, suscitando le critiche del centro-destra
e soprattutto della Lega, che ne ha criticato l'intervento, nel quale, tra le altre cose, la senatrice aveva affermato:

«La politica che investe nell'odio è sempre una medaglia a due facce che incendia anche gli animi
di chi vive con rabbia e disperazione il disagio dovuto alla crisi e questo è pericoloso.
A me hanno insegnato che chi salva una vita salva il mondo intero,
l'accoglienza rende più saggia e umana la nostra società.»

Come primo atto legislativo ha proposto l'istituzione di una Commissione parlamentare
di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo
e istigazione all'odio e alla violenza, proposta sostenuta tra gli altri
dai colleghi senatori a vita Renzo Piano ed Elena Cattaneo.
Il 30 ottobre 2019 il Senato della Repubblica, con i 151 voti favorevoli di Movimento 5 Stelle,
Partito Democratico, Liberi e Uguali e Autonomie e le 98 astensioni di Lega, Forza Italia e Fratelli d'Italia,
ha approvato la mozione, che prevede nello specifico tre articoli:
il primo istituisce la commissione, il secondo ne specifica i compiti,
il terzo riguarda il funzionamento stesso della commissione
Il 29 gennaio 2020, su invito del presidente David Sassoli, è intervenuta al Parlamento europeo.

«Anche oggi qualcuno non vuole guardare e anche adesso qualcuno dice che non è vero»,
ha affermato la senatrice.

 «La gente mi domanda perché c’è ancora l’antisemitismo e il razzismo. Io rispondo che c’è sempre stato»,
che prima «non c’era il momento politico per poter tirar fuori l’antisemitismo e il razzismo
che sono insiti nell’animo dei poveri di spirito.
Ma poi arrivano i momenti, i corsi e i ricorsi storici.
Arrivano i momenti in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile far finta di niente
che si guarda solo il proprio cortile e si dice
“è una cosa che non mi interessa, che non mi riguarda”
e tutti quelli che approfittano di questa situazione trovano il terreno adatto per farsi avanti».

Il suo intervento è stato salutato da un lungo applauso e da un minuto di silenzio
in onore delle vittime dell'Olocausto.
Il 26 ottobre 2020, in occasione della cerimonia d'inaugurazione dell'anno accademico 2020/21,<
l'Università LUMSA le ha conferito la laurea magistrale honoris causa in Relazioni internazionali.
Su proposta di Gianni Peteani, dell'osservatorio astronomico di Trieste e di Grant Stokes,
direttore del progetto LINEAR, l'Unione Astronomica Internazionale (IAU) ha dedicato a Liliana Segre
l'asteroide 75190 Segreliliana,

Una delle sue frasi più famose è

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