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POMPEI




 
 

 

ALIMENTAZIONE

Dai reperti di cibo carbonizzato si comprende che l'alimentazione dei pompeiani
era a base di verdura, frutta e  pane.
Il pane, prodotto in diversi panifici con annessi mulini
con macine in pietra, era senza dubbio un alimento base.



La frutta e la verdura venivano vendute in gran quantità nelle botteghe
insieme all'olio, tanto che Plauto chiamava i romani "mangiatori di erbe".
Tra le specialità dei prodotti dell'orto dei pompeiani
c'era un particolare tipo di cavolo conosciuto anche a Roma
come il cavolo di Pompei o anche "cavolfiore".
Questo alimento era molto considerato dai romani,
tant'è che Catone nel "De Agricultura"
gli attribuì il primato tra le verdure.
"Se a un banchetto volete bere molto e mangiare con appetito
- raccomanda Catone - prendetelo crudo prima del pasto
e fate altrettanto dopo, vi sembrerà di non aver ingerito nulla
e potrete bere quanto volete".
Negli orti della campagna pompeiana si coltivavano
diversi tipi di lattuga, molto simili a quelli ancora in uso come:
cicoria, broccoli, rapa, basilico, carote, crescione e porro.



Quest'ultimo era collocato da Plinio al primo posto
tra gli alimenti insieme alla cipolla e all'aglio.
Questi erano ritenuti dalle classi più povere
un companatico da accompagnare al pane e non solo un condimento.
Una precisa indicazione di ciò che si produceva,
e quindi si consumava a Pompei, è fornita dal ritrovamento
di semi carbonizzati di melone, fave, piselli, ceci e lenticchie.
Cominciavano, inoltre, a diffondersi ortaggi coltivati in serra,
come i cetrioli cari a Tiberio o di selezione, come gli asparagi:
"La natura aveva creato gli asparagi di bosco,
in modo che chiunque potesse raccoglierli qua e là dove spuntavano:
ecco che compaiono gli asparagi coltivati,
e Ravenna ne produce tali che tre raggiungono
il peso di una libbra?... "(Plinio, XIX,19).



Un altro alimento particolarmente diffuso erano le olive,
che si coltivavano in zona, verso i monti Lattari
e venivano conservate, come oggi, in salamoia
o in aceto ed anche trasformate in olio.



Un pezzetto di formaggio, un pugno di olive e un po' di pane
costituivano di fatto l'alimentazione più diffusa
tra le classi sociali meno abbienti.
In alcune case di Pompei sono stati ritrovati
resti di noci, nocciole e mandorle, conservate su scaffali,
tra le scorte alimentari per la famiglia.
Qualche anno prima della catastrofica eruzione del 79 d.C.,
vennero importate a Pompei il ciliegio, l'albicocco, e il pesco.
Gli ortaggi venivano conservati per l'inverno in salamoia o in aceto,
mentre la frutta si essiccava e si immergeva nel miele.
Quanto al pane, era diffuso già nel II secolo a.C.
Esso era costituito da un frumento più raffinato del grano
usato dai primitivi e anche dall'orzo.
I panettieri pompeiani sfornavano almeno dieci tipi di pane
e addirittura una specie di biscotto per cani.



Una delizia per il palato dei pompeiani era una salsa di pesce
molto concentrata e dal sapore aspro.
Si preparava con le interiora delle sardine, che venivano mescolate
con pezzi di pesce sminuzzati, uova di pesce e uova di gallina.
Il miscuglio, pestato e mescolato a lungo, veniva lasciato al sole
o in un locale riscaldato e poi nuovamente pestato
per trasformarlo in una poltiglia omogenea.
Dopo sei settimane di fermentazione, il prodotto ottenuto,
detto liquamen, veniva posato in un cesto dal fondo bucato.
Così, mentre un residuo, considerato commestibile
e noto col nome di hallec o faex, colava dal cesto,
vi rimaneva il prodotto finito detto garum
dal nome greco gáron, specie di pesce usato
dagli orientali per questa salsa.



Il garum era spesso mescolato con vino, aceto o erbe aromatiche,
ed era utilizzata per condire un'infinità di vivande.
C'erano comnunque un gran numero di salse di pesce diverse.
Le migliori erano il garum excellens e il gari flos flos,
estratte dalla ventresca del tonno, dallo sgombro e dalla murena (flos murae).
L'hallec, ritenuta la salsa dei poveri,
si preparava anche con le acciughe.
Il garum veniva a volte allungato con acqua o aromatizzato con erbe,
forse a motivo del suo cattivo odore.
Scriveva Marziale: "Il fiato di Papilo è così forte
che riesce a trasformare in puzza di garum
il profumo più intenso" (Epigrammi, VII, 94).
La salsa era anche un ingrediente importante
nella preparazione delle polpette pompeiane a base di carne
di maiale e pan bagnato nel vino cotto misto a garum.
Le polpette si cuocevano  in vino cotto insieme a foglie d'alloro.
Pompei era rinomata anche per la produzione di formaggi (casei),
affumicati e non, di pecora e di vacca.
Il ceto medio consumava diverse qualità di pesci e molluschi.
Agli schiavi erano destinati i molluschi meno pregiati,
come le "balorde", non a caso conosciute nel Napoletano
come le "cozze degli schiavi".
Allora come oggi vi era la consuetudine di conservare sotto sale
non solo le alici, ma anche tranci di tonno e di pescespada.
Pur essendo il mare molto più pescoso di adesso,
era molto comune tra i ricchi, la moda di allevare
il pesce, così da avere sempre disponibili le specie più pregiate.
Furono allestiti un po' ovunque lungo le coste italiane
allevamenti di ostriche, di murene e finanche di specie
da mare aperto come l'orata o il sarago, come ad esempio,
le piscine di Ventotene o di Terracina o quelle lungo la costa flegrea
di proprietà di Lucio Murena, che, secondo Plinio, ideò tali attività.
Reperti relativi all' allevamento delle ostriche sono stati trovati
anche nelle antiche città vesuviane:
essi sono costituiti da valve di ostriche cementate
a cocci di terracotta a conferma dell'uso
di allevare le ostriche ancorandole a frammenti di anfora.
L' uso di allevare pesci, in particolare murene,
si era diffuso anche in città:
nell' antica Pompei nei giardini di alcune case
le piccole piscine che si accompagnavano ai ninfei
furono trasformate in murenai.
Così come racconta Seneca, l'uso sempre più diffuso del vetro
portò poi questa pratica all'interno stesso
della casa e non più solo nei giardini.
Egli descrisse con accenti scandalizzati la moda
di permettere ai commensali di scegliere, direttamente
a tavola, il pesce che desideravano mangiare:
"I pesci nuotano all'interno dei letti triclinari
e si possono catturare addirittura sotto le tavole
per imbandirli subito sulla tavola stessa:
poco fresca sembra la triglia se non muore in mano al commensale.
Vengono esibiti dentro recipienti di vetro
e mentre stanno per morire se ne osserva il colore,
che la morte durante l'agonia varia in molte gradazioni."
Egli poi concludeva: "Il ventre degli aristocratici
è giunto a tale eccesso, che costoro non possono assaporare
se non il pesce che hanno visto nuotare e guizzare mentre sono a tavola.



I pompeiani amavano la buona cucina:
era uso mangiare tre volte al giorno.
Di buon mattino facevano la prima colazione (ientaculum):
si consumavano pane e formaggio o verdure e ciò
che era avanzato dalla sera precedente:
pesce fritto, uova, olive, salsicce e anche dolciumi e frutta.
Verso mezzogiorno la famiglia si raccoglieva per il prandium,
un pasto piuttosto leggero: pesci, uova, legumi e frutta.
Il pasto di metà giornata era spesso consumato fuori casa,
e a volte anche la cena in compagnia di amici,
nelle Tabernae ed altri luoghi di ristoro.
Verso le quattro del pomeriggio si ritornava a casa per la cena,
il pranzo principale della giornata, a cui si invitavano gli amici,
intrattenuti nell'apposita sala (triclinium)
da giocolieri, danzatori, musici, come racconta
Plinio nel 9° libro, lettera 17.



Nell'età imperiale i commensali cenavano sdraiati sui letti tricliniari.
Ogni cena che si rispetti iniziava con l'"aperitivo"
un momento di preparazione al pasto principale,
che permetteva agli invitati di scambiare quattro chiacchiere in tranquillità.
Ecco la ricetta di un tipico aperitivo pompeiano dell'epoca.
Ingredienti: 1 litro di eccellente vino bianco campano
(come il Lacryma Christi del Vesuvio),
1 cucchiaio di miele, 3 chiodi di garofano,
1 foglia di alloro spezzettata,1/2 cucchiaino di salsa garum
o di pasta di acciughe (facoltativo).
Mescolare tutti gli ingredienti in una caraffa,
avendo cura di sciogliere bene il miele e la salsa di pesce.
Lasciar riposare per qualche ora prima di servire
con olive bianche e nere, fichi, ricotta aromatizzata
con il miele e focaccia salata.
Poi iniziava la "gustatio", un antipasto con uova, lattuga,
ostriche innaffiate con vino e miele;
e in seguito venivano servite due o tre portate
di ogni genere di carne aromatizzata.
L'apporto delle carni all'alimentazione veniva integrato
con selvagginao piccoli ghiri e lumache, ospitati
in appositi contenitori di solito conservati in giardino.
Diffuso era il pesce di mare o d'acqua dolce:
fritto, lesso o arrosto e condito con salse
che spesso veniva allevato in giardino



Gli ultimi piatti erano i dolci e la frutta, soprattutto fichi.



"Tenga in dispensa (la massaia, n.d.r.): pere secche,
sorbe, fichi, uva passa, uva in marmitte, mele stanziane
in doglio e tutti gli altri frutti che è uso conservare,
anche quelli selvatici, li conservi ogni anno con diligenza."
(de agr. 144 (CLII))scriveva Catone



Dopo cena talvolta si beveva a volontà sotto la direzione
di un arbiter bibendi, "re del convito",
eletto con il lancio dei dadi, che sceglieva i vini
e stabiliva la grandezza e il numero delle coppe.
Le sale da pranzo erano tra gli spazi più importanti della casa.
I banchetti si svolgevano sia all'interno che all'esterno nel giardino.
Ogni triclìnio comprendeva tre letti disposti ad 'U',
su ciascuno dei quali prendevano posto tre convitati,
che mangiavano sdraiati appoggiandosi sul gomito sinistro:
il posto riservato all'ospite d'onore era generalmente
quello all'estrema sinistra, nel letto centrale,
mentre il padrone di casa si metteva a fianco, sul letto di sinistra.
Le cene erano allietate da letture e recitazioni, cantanti, suonatori e ballerini.
Il vasellame da mensa consisteva in ciotole, brocche, bicchieri.



Normalmente si mangiava con le mani, non esistevano forchette,
ma sono stati rinvenuti cucchiai e coltelli.



Per questo erano serviti ai commensali dei catini
con acqua per lavarsi la mani.
L'unica bevanda, oltre all'acqua, era il vino,
spesso mescolato con miele e perfino acqua di mare
e aromatizzato con resina e pece;
un vino molto decantato era il vitis Holconia.
che veniva prodotto in due qualità: bianco e rosso.
Una bevanda economica era la pòsca,
costituita da aceto diluito in acqua.
Il vino di Ercolano era esaltato dalle fonti letterarie
e costituiva un'importante fonte di reddito.





Chi non mangiava in casa, andava nelle Tabernae
ed altri luoghi di ristoro.
Questi luoghi non avevano una buona reputazione,
sia perché frequentati dal basso ceto,
sia perché vi si praticavano giochi d'azzardo
e infine  la lucrosa attività della prostituzione.
Per questo motivo la gente "bene",
rigorosamente attaccata alle tradizioni,
evitava il più possibile di farsi vedere nelle tabernae,
ma vi si recava in incognito.
Di conseguenza taverne ed altri simili luoghi di ritrovo
per mangiare e bere erano ovunque assai numerosi.



A Pompei, solo nella via dell'Abbondanza,
che attraversava il quartiere commerciale,
vi erano ben venti taverne su un totale di 118 presenti nella città.



Ad essi occorre aggiungere una ventina di alberghi
spesso con ristorante annesso (hospitia et stabula).



Gli hotel si trovavano di preferenza presso le porte della città,
nei pressi dei teatri o dei bagni (quando non si trovavano
alloggi anche entro le terme), nelle vicinanze
della piazza principale (Forum), accanto alle caserme
dei gladiatori, nel quartiere dei lupanari
(case adibite alla prostituzione),
nelle vicinanze dei mercati e delle borse,
cioè nelle zone in cui si trattavano gli affari commerciali.
I vari locali erano pubblicizzati con insegne e iscrizioni
che vantavano la bontà della cucina e il menù del giorno.
Ovviamente esistevano taverne sia di infimo ordine,
dove c'erano bische clandestine, giochi d'azzardo,
si esibivano ballerine orientali e si praticava la prostituzione,
ma anche taverne, in quartieri più distinti,
dove il livello era migliore; per esempio
le locande situate presso i centri religiosi,
mete di pellegrinaggio, direttamente poste
sotto la sorveglianza dei sacerdoti.
Le taverne erano composte da un bancone di pietra aperto sulla strada,
ben quadrato, generalmente dotato di cinque
o sei giare incastrate nel bancone stesso.



Altre giare erano disposte in bella mostra sulla strada,
legate, durante il giorno, da catene.
Accanto al banco, un piccolo fornello reggeva una casseruola
nella quale era sempre pronta l'acqua calda,
utilizzata per la preparazione delle bevande.
Dietro alla taberna c'era la cucina e una o più sale
di consumazione secondo la grandezza del locale.



Certe tabernae erano specializzate nella vendita
di piatti già preparati o di cibi caratteristici.
Più economica e povera era la popina,
dove non veniva servito vino al dettaglio,
ma era una trattoria dove la bevanda veniva portata ai tavoli
solo per accompagnare i piatti del pasto.
Ancora più povero come locale era il gurgustium
(una specie di bettola) e più dissoluta la ganea o ganeum.
C'erano ancora altri luoghi, come il thermopolium
dove il pasto era a base di focacce, pesce fritto,
uova, olive, salsicce e anche dolciumi e frutta
e l'oenopolium (vendita di vini).



Alcuni piatti si potevano anche acquistare dai venditori ambulanti.
Il servizio di vigilanza, che dipendeva dal praefectus urbis
(la nostra moderna polizia), non vedeva di buon occhio
i gestori delle taverne, delle popinae e degli hotel,
appunto per la natura delle attività complementari
che vi si svolgevano
e che favorivano la dissolutezza e il furto.
Se confrontiamo i reperti trovati nelle aree archeologiche vesuviane
con l'elenco di cibi e bevande riportati nella letteratura classica
in particolare di quanti hanno scritto ricette,
non riusciamo a distinguere in maniera chiara
tra alimenti, condimenti e medicinali.
L'olio, la farina e il vino, così come il succo di limone,
la salvia o il rosmarino, che compaiono quotidianamente
sulle nostre tavole, in epoca romana erano presenti
anche nelle farmacie di casa, talora unicamente come piante medicinali.
Costituivano, cioè, gli ingredienti impiegati dai profumieri
e dai farmacisti per preparare farmaci e/o cosmetici.
Piante e resine aromatiche venivano, ad esempio,
messe a macerare in olio di oliva,
il più prezioso ottenuto da olive ancora verdi,
o nel vino, in alcuni casi ricavato
anche da grappoli d' uva immaturi,
utilizzando tecniche di lavorazione comuni sia alla medicina
che alla cosmesi, così che molto spesso il produttore era unico.



La tradizione di usare piante alimentari per curare malattie
si è protratta del resto nel tempo, tanto da essere
ancora viva nella medicina popolare dei nostri nonni
e talora si è conservata intatta fino ai nostri giorni.
Per combattere la nausea, ad esempio, ancora oggi
si consiglia di mangiare una fetta di limone
o di bere un infuso di alloro.
Seppure in misura minore anche i prodotti
di origine animale erano usati con diversa valenza.
I pesci ed i molluschi, ad esempio, servivano a curare
le più diverse malattie: la parotite con la cenere dei murici,
la malaria con il fegati di delfino e così via.
Lo stesso garum, la nota salsa di pesce
era considerato un medicamento utile a guarire le ustioni,
le ulcere, i morsi dei cani.
Nelle nostre tradizioni popolari, del resto,
ancora fino a qualche decennio fa, il ricostituente ideale per i ragazzi
era considerato l' olio di fegato di merluzzo.
Leggendo quindi le antiche ricette e confrontandole con quelle attuali
talvolta si rimane sorpresi per l'uso di ingredienti,
che appaiono lontanissimi dalle nostre abitudini alimentari
altre volte invece per la straordinarie continuità.
Se i baccelli di fave e di piselli venivano ancora consumati
in tempo di guerra, appare invece impossibile
che si possa mangiare fieno greco o quella farina di ghiande
che Apicio considerava prelibatezze.
Di contro, la salagione dei prosciutti così come descritta da Columella,
le grandi forme di formaggio che Plinio descrive come prodotti caseari
tipici dell'attuale Emilia, i filetti di tonno conservati sotto sale
e affumicati, realizzati dai pescatori calabresi e siciliani
(è sempre Plinio a raccontarlo),finanche lo stesso garum
che in una forma molto simile è ancora prodotto dai pescatori di Cetara,
appaiono chiaramente all'origine di prodotti
considerati tipici della tradizione culinaria italiana.



CURIOSITA'

Tra le classi sociali più alte era invalso l'uso
di allevare animali esotici con grandi ritorni economici.
A Roma fu l'oratore Ortensio, per primo,
che fece uccidere un pavone per cibarsene
durante il banchetto inaugurale del suo sacerdozio.
Marco Aufidio Lurcone,fu il primo che si mise ad ingrassarli,
al tempo dell'ultima guerra contro pirati,
e con questi ricavò rendite annue di 60.000 sesterzi (Plinio, X, 23).
Si mangiavano polpette di pavone, di fagiano e di coniglio, struzzo lessato:
"Gli struzzi d' Africa superano l'altezza di un uomo
a cavallo e lo vincono in velocità.
Hanno la straordinaria capacità di digerire
quello che, senza operare alcuna scelta, ingurgitano,
ma non è meno straordinaria la stupidità di questi animali
che pensano, quando hanno nascosto la testa in un cespuglio,
di rimanere invisibili anche nel resto del corpo".
Così li descrive Plinio (N. H. X,1),
Mangiavano anche carne di pappagalli e fenicotteri in umido.
Apicio,come scrive Plinio ( X,68 ), il più grande ghiottone dell'epoca,
ci ha informati che la lingua (del fenicottero)
è dotata di un sapore squisito.
2000 anni fa, gli abitanti di Pompei si nutrivano,
oltre che di alimenti classici tuttora presenti nella nostra dieta
(come cereali, uova, frutta e legumi), ricci di mare,
anche di cibi esotici come..... le zampe di giraffa.
In uno scavo archeologico, infatti, un gruppo di archeologi
dell'Università di Cincinnati, in Ohio negli Stati Uniti.,
ha rinvenuto una zampa di giraffa.
che ci dice molto sul commercio di animali esotici
e sulla ricchezza e la varietà della dieta dell'epoca.
A scoprirlo sono stati Steven Ellis e i suoi colleghi
che hanno scavato per un decennio negli scarichi
di alcuni ristoranti della città campana vicino alla Porta Stabia,
Latrine e fogne dietro i banchi di vendita hanno restituito
resti di cibo mineralizzati o carbonizzati dalle cucine,
alcuni datati al quarto secolo avanti Cristo
quando la città era ai suoi primi stadi di sviluppo,
questo ha permesso di ricostruire la dieta pompeana.







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