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POMPEI




 
 


DIVERTIMENTI

I Romani e quindi i Pompeiani, amavano divertirsi soprattutto al teatro e all’anfiteatro.
Panem et circenses, pane e giochi del circo, erano
i due indispensabili elementi che tenevano quieta la folla.
Gli spettacoli dovevano essere molteplici; infatti sono state rinvenute
numerose pitture che rappresentano spettacoli teatrali,
e. inoltre. Pompei, aveva due teatri:
quello Piccolo destinato ad audizioni musicali e poetiche in genere,
e quello Grande, per la rappresentazione di tragedie, commedie e satire.
La struttura del Teatro Piccolo detto anche Odeon,
è molto simile a quella del Teatro Grande,
ha la forma di un semicerchio iscritta in un quadrato,
anche se la parte più esterna delle gradinate,
nella zona laterale, non fu costruita per permettere la copertura
con tetto a quattro spioventi, in modo tale da ottenere una migliore acustica.
Aveva una capacità di circa milletrecento posti,



Un’iscrizione ricorda i nomi dei due magistrati
che fecero costruire l’edificio o che almeno finanziarono i lavori:
"C.Quinctuius C.f.Valg(us), M. Porcius M.f. duovir(i) dec(urionum)
decr(eto) theatrum tectum fac(iundum) locar(unt) eidemq(ue) prob(arunt)"
(Caius Quinctius Valgus figlio di Caius e Marcus Porcius figlio di Marcus,
duoviri, per decreto dei decurioni appaltarono la costruzione
del teatro coperto ed essi la collaudarono).
Entrambi ci sono noti tramite altre iscrizioni sparse nella città
e il secondo ci è addirittura nominato da Cicerone
che ci ricorda il suo arricchimento come suocero di
Publius Servilius Rullus l’autore della legge agraria
contro cui Cicerone si scagliò con veemenza.



Il Teatro Grande fu edificato in età sannitica
ma completamente rifatto nel II secolo a.C. ed in seguito più volte restaurato,
intorno all'80 a.C., in contemporanea con la costruzione del Teatro Piccolo,
Durante l'epoca augustea, ci fu una ristrutturazione totale,
grazie alle sovvenzioni della gens Holconia,
una delle famiglie più importanti di Pompei,
impegnata nelle coltivazioni di viti; tale evento è ricordato
con una targa che riporta la scritta:
"M.M. Holconii Rufus et Celer criptam, tribunalia, theatrum sua pecunia"
(Marcus Holconius Rufus e Marcus Holconius Celer ricostruirono
a proprie spese il sottopassaggio coperto, i palchetti
e tutta la gradinata).
Il Teatro Grande ha una forma a ferro di cavallo, distinguendosi
dal modello tradizionale romano ad emiciclo
La parte riservata al pubblico era la cavea e poteva accogliere
circa cinquemila spettatori.
Il teatro fu edificato sulle pendici di una collina,
di cui sfrutta il costone per la gradinata
e si apriva su di uno splendido panorama,
dominato dalla valle del Sarno e dai monti Lattari.



Tutta la zona del Teatro, probabilmente, era decorata
con fontane e ninfei ritrovati al momento degli scavi,
mentre diversi blocchi forati indicano
che l'intera struttura veniva coperta con un velarium,
una copertura mobile in tessuto composta da più teli (o veli) in canapa
per garantire agli spettatori un'adeguata protezione
dal maltempo o dal caldo eccessivo.





Quando si rappresentava un'opera teatrale,
il titolo e l’autore, oltre ad essere propagandati dagli araldi
e da avvisi pubblicitari, erano anche annunciati prima dello spettacolo
dal prolugus, che faceva un breve riassunto della produzione.
Conosciamo il volto di un famoso attore della città, Caio Norbano Sorex,
che, secondo Plutarco, fu grande amico di Silla, tanto che,
gli fu compagno negli ultimi mesi di vita, a Pozzuoli, nel 78 a. C. (Plut.Sulla).



Ma lo spettacolo che più appassionava i pompeiani era quello delle lotte gladiatorie
che ebbero origine proprio in Campania e si svolgevano nell’Anfiteatro..
L’anfiteatro di Pompei risale al 70 a.C. ed è il più antico che si conosca.
Fu costruito dai duoviri Gaio Quinzio Valgo e Marco Porcio
ed era utilizzato per i giochi circensi e i combattimenti tra i gladiatori.



Queste parate, talvolta pubblicizzate con graffiti
sulle facciate delle case,, avvenivano in forma grandiosa,
come è testimoniato da un'iscrizione che recita:
"Aulus Clodius Flaccus, della tribù Menenia, duoviro con potere giurisdizionale
per tre volte e quinquennale, tribuno militare di nomina popolare
organizzò questi spettacoli per la popolazione di Pompei.
Nel primo duomvirato, alle feste di Apollo, alla parata nel foro,
tori, toreri e aiutanti, tre coppie di schermidori, pugilatori in gruppi o singoli,
e rappresentazioni con buffoni d'ogni sorta e con ogni genere di pantomimi,
tra cui Pilade e in più diecimila sesterzi in elargizione pubblica per l'onore del duomvirato"

.

Si trova all’estremità orientale della città e si raggiunge
percorrendo la lunga via dell’Abbondanza fino a entrare nella regio II.;
all’esterno la struttura ellittica di questo luogo di svaghi cruenti
s’impone per le sue dimensioni: 140 metri lungo l’asse nordovest-sudest
e 105 metri lungo l’altro asse.
All’interno ventimila spettatori si sedevano lungo trentacinque scalinate.
Le autorità prendevano posto in sedili collocati nell’orchestra;
le prime quattordici file erano occupate dai cavalieri.
Il diritto di occupare un posto riservato poteva essere ceduto a pagamento
ll popolo stava in alto e gli spettacoli nei posti comuni erano gratuiti..
Forestieri e schiavi non erano ammessi agli spettacoli
ma pare che questo divieto non fosse molto osservato.
Gli spettacoli duravano ore ed ore; la gente portava con sé da mangiare e da bere.
Chi curava lo spettacolo provvedeva anche a far distribuire cibi, bibite e dolci.
Nelle gradinate lasciate al popolo l’affollamento cominciava
fin dalla notte precedente allo spettacolo;
ciascuno cercava di assicurarsi per tempo un buon posto,
rinunziando al sonno e nella lunga attesa notturna il pubblico tumultuava,
tra urli, scherzi e contestazioni d’ogni genere<
Del resto anche durante lo spettacolo il pubblico era molto irrequieto:
manifestando la sua disapprovazione in modo rumoroso,con fischi ed urli,
parteggiando per l’uno o l’altro gladiatore o autore
ciascuno dei quali aveva i suoi fans; e in più esisteva una claque,
(gente pagata per applaudire).
D’estate sul pubblico picchiava ferocemente il sole;
c’era quindi l’uso di ripararsi con l’ombrello;
se non tirava vento, si stendevano grandi velari sostenuti da grossi pali.
Si cercava di rinfrescare l’ambiente annaffiando l’impianto
con acqua mista ad essenze odorose.
Gli spettacoli del teatro e del circo erano anche un ritrovo mondano:
nei posti riservati, la parte più eletta di Roma conveniva come in un salotto;
le signore approfittavano dell’occasione per sfoggiare abiti eleganti,
graziose acconciature e gioielli ed anche per lasciarsi corteggiare.
Le prime gradinate offrivano un aspetto magnifico,
con tante bellezze femminili in mostra,
tintinnanti di oreficeria e piene di gaia esuberanza.
“Vengono a vedere e a farsi vedere “scriveva Ovidio.
Gli spettacoli erano preceduti da lunghe e fastose processioni
per i poveri combattenti che andavano a morire.
I gladiatori, reclutati da impresari tra schiavi e criminali,
venivano allenati in scuole o ludi e mandati nell’arena con la promessa,
in caso di vittoria, della libertà.
Alla vigilia del combattimento il pubblico veniva ammesso ad un sontuoso banchetto
che era offerto ai gladiatori; la folla circolando fra i tavoli,
aveva modo di ammirare i campioni che l’indomani avrebbero portato
in trionfo o di cui avrebbero decretato la morte.
La sentenza del pubblico, infatti, era senza appello:
il vinto doveva offrire la gola al vincitore e attendere il colpo mortale.
Il combattimento tra gladiatori non era l’unico spettacolo che si svolgeva nell’arena,
vi erano anche quelli degli uomini contro le belve
o di animali domestici contro bestie feroci.
Il calendario dei giochi era molto vasto e il maggior numero di spettacoli
si aveva nel periodo che va da febbraio a luglio.



I duellanti, aperte le sbarre delle carceres,entravano nell’arena,
dalla porta triumphalis e da quella, se le cose andavano bene,
uscivano tra gli applausi, altrimenti qualcuno provvedeva
a raccoglierne le spoglie e a farle uscire dalla porta Libitinensis.
Il tifo era acceso e le risse non mancavano
Tacito riferisce di un episodio che i telegiornali riporterebbero in cronaca
come un episodio di“guerriglia urbana”.
(Neanche questo "abbiamo inventato"....).
I Pompeiani e i Nocerini appartenevano a tifoserie avverse.
e nel nel 59 d.C. durante un combattimento di gladiatori,
organizzato da Livinèio Règolo
un futile incidente provocò un orrendo massacro..
Come avviene "normalmente", si cominciò con degli insulti piuttosto pesanti,
poi volarono pietre, e si finì col giungere alle armi.
Questa zuffa è documentato anche da una pittura su una casa plebea,
conservata oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.



Tacito ("Annales", XIV, 17) così la descrisse:
"A quel tempo una causa futile provocò una atroce massacro
tra i coloni di Pompei e di Nocera durante un combattimento gladiatorio
offerto da Livineio Regolo, della cui rimozione dal Senato ho già riferito.
Dapprima i cittadini a turno s'insolentirono continuamente,
poi scagliarono i sassi e infine ricorsero alle armi,
prevalendo la gente di Pompei, presso cui si svolgeva lo spettacolo.
Pertanto molti nocerini furono riportati in città col corpo mutilato dalle ferite,
e in tanti piangevano la morte dei figli o dei genitori.
L'indagine delle cause fu affidata da Nerone al Senato,
che la rinviò ai consoli. Riferita la relazione ai senatori,
furono vietate ufficialmente queste riunioni per dieci anni e le associazioni,
che avevano operato contro la legge, furono sciolte;
Livineio e gli altri autori della sedizione furono condannati all'esilio."
L'interdizione dello stadio venne poi abbassata a soli due anni,
probabilmente per l'intervento di Poppea
che pare possedesse una villa da quelle parti
(le è stata attribuita quella rinvenuta ad Oplonti a Torre Annunziata.



Forse influì anche il terremoto che colpì la città nell'anno 62 d,C.



Vi erano festività stabilite come quelle celebrate in onore di Apollo
(Ludi Apollinares) o festività per avvenimenti straordinari
come l’inaugurazione di statue che richiedevano
la preparazione di giochi e combattimenti finanziati da duoviri o da ædiles.
Tuttavia, la festa più importante al tempo dei romani,
era quella dei Saturnali in onore del Dio Saturno,
una delle più antiche divinità agricole dell’Italia centrale,
il cui nome pare derivi dal latino Sator (seminatore),
che venne poi fuso col greco Crono.
Si svolgevano dal 17  al 23 dicembre (periodo fissato da Domiziano).
Avevano carattere sfrenato e orgiastico e, durante la loro celebrazione,
era consuetudine abolire le distanze sociali,
considerare sospese alcune leggi e norme. e scambiarsi doni augurali.
Questo scambio di doni somiglia molto a quanto avviene nel nostro Natale.
Infatti, l'uso di scambiarsi doni a dicembre è un’usanza
che risale alla festa dei Saturnali,
durante la quale si scambiavano dolci, oppure candele di cera,
simboleggianti la luce solare, il fuoco, che l’uomo deve tenere acceso
anche nei periodi bui,oppure si regalavano immagini degli dei,
piccole statue d’argilla ed altri oggetti.
Il terzo giorno dei Saturnali si teneva un sacrificio
davanti al Tempio di Saturno, con un banchetto
al quale partecipavano solo schiavi, che in quel giorno
godevano di piena libertà.
Essi vestivano gli abiti del padrone
ed erano serviti a tavola dai padroni stessi
e mangiavano e bevevano quanto piaceva a loro.
Usanza per via della quale, almeno un giorno all’anno,
quella tanto maltrattata classe di uomini
aveva modo di dimenticare la propria miseria.



Durante i Saturnali ci si vestiva in modo speciale,
con un elegante vestitino leggero tutto ricamato (syntesis),
si chiudevano le scuole e i tribunali,
si sospendeva ogni dibattito ed ogni esecuzione contro i colpevoli;
nelle case si procedeva al sacrificio di una porchetta lattante,
si accendevano candele per simboleggiare il sole che riappare dopo l’inverno<
perché dopo i Saturnali le giornate tornano ad allungarsi.



Non tutti i Pompeiani avevano la fortuna di possedere le terme in casa
e recarsi alle piscine termali diventava, dunque, una necessità.
D’altra parte, rappresentava anche una moda, un fenomeno di costume:
l’espressione di un particolare concetto di tempo libero.
Gli antichi non si recavano alle terme soltanto per farsi il bagno,
ma anche per frequentare amici, chiacchierare e intrecciare relazioni politiche:
erano, insomma, un’occasione per socializzare.
Le stazioni termali offrivano ai clienti piscine, bagni caldi, saune,
aree porticate, palestre, ambienti dedicati alla toeletta e ai massaggi.
Per accedervi bisognava pagare una somma moderata
(ai ragazzi era consentito l’accesso gratuito),
mentre se si voleva usufruire dei diversi servizi, quali massaggi,
custodia degli abiti e fornitura di oli profumati,
bisognava pagare ulteriormente.
Generalmente, esistevano spazi per gli uomini separati da quelli per le donne.
L’ingresso era previsto dopo le ore 13.30, per gli uomini,
mentre le donne vi si recavano sovente al mattino.
Le terme restavano aperte sino a sera.
All’interno degli impianti di Pompei, infatti, sono state trovate
moltissime lucerne usate per illuminare i locali..



Lasciati i vestiti nell'apoditèrium, lo spogliatoio con volte a botte
sui cui lati erano disposte delle nicchie per deporre gli abiti,

<

i Pompeiani si dirigevano in piscina o in palestra per un po’ di  ginnastica.
Una volta terminati gli esercizi, si recavano nuovamente in piscina
o al caldàrium (locale destinato ai bagni),sovente collocato
presso il lacònicum (cioè, bagno turco).
All’interno di questi ambienti l’aria calda giungeva dalle caldaie poste
al di sotto della pavimentazione rialzata e dagli interstizi delle pareti.
Poi, i Pompeiani si fermavano nel tepidàrium, un locale temperato
e, infine,andavano nelle vasche fredde site nel frigidàrium.



I clienti delle terme si attrezzavano con asciugamani fatti di lana o di lino
e utilizzavano la soda per lavarsi, oli profumati e una paletta arcuata di metallo,
chiamata strigile, per pulire il corpo cosparso d’olio
e ricoperto di sabbia per via degli esercizi sportivi.



Le stazioni termali avevano delle persone addette al controllo dell’igiene,
al corretto mantenimento delle strutture e del rispetto degli orari.
A Pompei esistevano varie terme fra le quali: le Suburbane e le Terme Stabiane
Le Terme Suburbane furono costruite nel primo decennio del I secolo
con la realizzazione di apodyterium, frigidarium,
tepidarium
, laconicum e calidarium;
a seguito di lavori di ampliamento vennero aggiunti la natatio (piscina),
tre ambienti che fornivano un percorso alternativo a quello tradizionale
ed un ninfeo con cascata.





Si trattava delle terme più moderne della città,
con importanti innovazioni negli impianti e nei sistemi di riscaldamento
e non era prevista alcuna distinzione tra ambienti maschili e femminili.
La struttura subì diversi danni a seguito del terremoto del 62,
rendendo necessari lavori di restauro e consolidamento.
Gli affreschi ritrovati si presentano in ottimo stato
e illustrano varie posizioni e prestazioni sessuali.



Le Terme Stabiane, così denominate in quanto poste
all'incrocio tra Via dell'Abbondanza e Via Stabiana furono costruite
intorno al III secolo a.C. in una zona che probabilmente si trovava in periferia.
L'impianto termale aveva due ingressi separati:
per gli uomini sull'ala sud e per le donne sull'ala nord.
Tra i due settori era posto un ambiente, il praefurnium,
in cui erano le caldaie per il riscaldamento.
Nell'edificio si possono distinguere diverse fasi architettoniche,
una più antica in cui piccole stanze da bagno si affacciavano,
secondo la consuetudine greca, su una grande palestra,
ed una più recente durante la quale vennero costruiti ambienti specifici,
come gli spogliatoi (apoditeria),le sale con piscine per i bagni freddi
gli ambienti tiepidi utilizzati per il relax ed i massaggi;
i bagni caldi e le stanze per la detersione con lo strigile (destrictaria).



La struttura si presenta con al centro la palestra porticata a base trapezoidale;
le colonne originariamente dalla forma più esile,
furono pesantemente stuccate dopo il sisma del 62
Al centro della palestra si trova la piscina (natatio)
cui si accedeva attraverso due vani lungo i lati brevi,
uno dei quali collegato ad un altro ambiente, probabilmente<
uno spogliatoio con bellissime decorazioni in IV stile raffiguranti
Giove, Ercole, un satiro, ninfe e atleti.
L'area femminile non aveva alcun collegamento con la palestra
che era riservata esclusivamente agli uomini.





I Pompeiani non esitavano a confessare il grande amore per i giochi d’azzardo;
ne furono appassionati in tutti i tempi.
Molto spesso le locande dissimulavano nel retrobottega una vera e propria bisca
in cui ogni giorno dell’anno si potevano fare scommesse e gettare i dadi.



Ci si serviva per giocare di due tipi di dadi:
i tali, di forma oblunga e con solo quattro facce numerate
e i tesseræ, comuni dadi a sei facce.



I dadi venivano lanciati da un recipiente (fritillus)
e lo scopo era di ottenere il punteggio più alto (venus).
Si giocava anche a navia aut capita (testa o croce),
par impar (pari e dispari),
micatio (l’attuale gioco della morra).
Un gioco molto tollerato era il tric – trac:
si giocava su di una tavola su cui erano segnate
dodici linee intersecantesi tra di loro
e occorrevano pedine ognuna delle quali aveva da una parte
motivi mitologici assieme ad un numero.
Le pedine (calculi) dovevano muoversi sulle linee
secondo il punteggio ottenuto gettando i dadi e gli ossicini.
I Romani si divertivano però anche giocando a dama e a scacchi.
Assai diffuso era il gioco della palla che veniva lanciata a mano;
era di cuoio e di dimensioni varie: c’erano il pallone gonfiato d’aria,
la palla imbottita di piume, il pallone imbottito di crine.



Dagli scavi archeologici e dalle fonti letterarie ci sono giunte
un'infinità di testimonianze di giocattoli e giochi degli antichi romani
che hanno permesso di ricostruire i vari  giochi dei bambini.
Già per i poppanti c’erano poppatoi a forma di animaletti
con dentro qualche sassolino per divertirli col loro suono
ma esistevano pure dei veri e propri sonaglini "tintinnabula".
I giocattoli dei bambini ricchi venivano commissionati ad artigiani esperti:
cerchi "orbis", spesso ornati di anelli e sonagli,
da far correre e suonare con la bacchetta "clavis",
trottole "turbo", carrettini, bambole "pupae", palle, ecc.



Per i maschi il carrettino era uno dei giocattoli più diffusi,
una biga in miniatura che poteva essere o molto piccola
e allora veniva legata ad animali di piccole dimensioni
(molto spesso i trascinatori erano dei topi)
oppure grande in modo che il bambino stesso potesse guidarla
e che veniva trascinata da una pecora, un cane, ecc.
I bambini li usavano per girare per le strade.
Erano prevalentemente in legno o avorio e gli animali
che li trainavano erano legati ad esso con una stringa di cuoio.
Le bambine invece amavano soprattutto le bambole
che conservavano fino all’età del matrimonio.
Infatti era usanza, alla vigilia della cerimonia nuziale,
che la sposa consacrasse a una divinità i giocattoli della sua infanzia.
I visi delle bambole erano curati, i capelli dipinti, gli occhi
e le labbra truccati e avevano anche ricchi corredi e abiti costosi.
Alcune bambole erano persino snodate.
Certamente diversi erano i giocattoli dei bambini più poveri:
infatti essi si dovevano accontentare di bastoni o canne
da cavalcare come dei cavallini o di semplici bambole di pezza.
Le noci invece erano le vere protagoniste di molti giochi infantili.
I bambini le accumulavano e le utilizzavano
in tanti giochi diversi per essere vinte o perdute.
Per i Romani divertirsi con le noci era così usuale
che l’espressione “lasciare le noci “"relinquere nuces",
ebbe il significato di lasciare l’infanzia per entrare nella vita adulta.
Marziale scriveva “era triste lo scolaro perché aveva lasciato le noci”.
Nell’opera “Le noci” Ovidio fa riferimento al "ludus castellarum",
un gioco che consisteva nel formare un triangolo con tre noci ravvicinate
e una in cima che bisognava poi far cadere.
Il gioco aveva molte varianti e veniva praticato
da bambini di entrambi i sessi.
Vi erano poi altri giochi delle noci: uno consisteva nel far scivolare
la propria noce su una tavola inclinata.
Un altro si giocava tracciando per terra un triangolo, diviso da linee orizzontali
parallele alla base e i giocatori a distanza, vi gettavano delle noci,
cercando di avvicinarsi il più possibile al vertice.
C’era anche il gioco della "fossetta"(ropa).
Giochi come quello della “fossetta” si facevano con le noci
ma si potevano usare gli astragali che originariamente erano ossicini
ma poi si foggiarono in bronzo, piombo, marmo
e terracotta e persino in oro e avorio.
I bambini li amavano molto ed a scuola spesso
venivano dati come premio ai più studiosi.
Con gli astragali si potevano fare diversi giochi.
Uno di quelli che veniva giocato dai bambini si chiamava "il cerchio".
In esso i giocatori si disponevano ad una distanza convenuta
tutt'attorno ad un cerchio segnato sul pavimento ed ognuno di essi
doveva cercare non soltanto di centrarlo con il proprio astragalo
ma anche spostare e buttare fuori quelli dei suoi avversari.
Sempre con astragali o pietruzze si giocava poi al gioco delle "cinque pietre",
che era soprattutto amato da bambine e bambini.
In questo gioco si gettavano per aria cinque astragali e rivoltando
rapidamente la mano si cercava di riprenderli.
Vinceva chi li prendeva tutti e cinque.



Conosciuto era pure l’ ephedrismos greco
che consisteva nel colpire una pietra piazzata su un cumulo di terra.
Il giocatore che tentava di colpirla con palle o sassi
doveva portare sul dorso un altro giocatore che gli bendava gli occhi.
Un altro gioco era "mosca cieca".che veniva chiamato da Polluce
muìda” che deriva da mùo chiudere.
Il gioco consisteva nel bendare un ragazzo e farlo ruotare
fino a fargli perdere l’orientamento.
Mentre ruotava doveva dire “ andrò a caccia della mosca di bronzo”.
I suoi compagni gli rispondevano “ la cercherai ma non la prenderai”
e lo colpivano con corregge di cuoio,
fino a quando lui non prendeva uno di loro.
Si giocava anche a pari e dispari.
Gli antichi, però, anziché puntare con le dita, nascondevano nelle mani
delle conchiglie o sassolini o noci in un certo numero,
e l’altro doveva indovinare se il numero era pari o dispari.
Questo gioco veniva praticato anche dagli adulti
che mettevano in palio denaro.
Scrisse Augusto:” “Diedi 250 denari a mia figlia Giulia nel caso
durante la cena giocassero a pari e dispari”.
Quello che noi chiamiamo testa o croce, i Romani lo chiamavano
“Navia ant capita” poiché la moneta più adatta
era quella che aveva da una parte la prora di una nave
e dall’ altra Giano bifronte.
Un ragazzino buttava una moneta e gridava “testa o nave”.
I piccoli pompeiani imitavano anche gli adulti:
si giocava a fare i soldati, i giudici, i magistrati e le signore.
 Elio Sparziano racconta che :
” L’ unico gioco che facevo quando ero giovane era il giudice”.
Vi ricordano qualcosa questi giorchi?







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