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POMPEI




 
 


POLITICA ED ELEZIONI

La vita istituzionale della città si basava essenzialmente su tre aspetti
tra loro interagenti: le elezioni del Consiglio dei Decurioni,
la divisione delle cariche pubbliche e l'amministrazione della giustizia.
L'amministrazione della città si svolgeva negli edifici municipali (la "curia"),
posti sul lato meridionale del Foro.



Lì vi era la sede dei due sindaci ("duoviri"), degli assessori ("aediles")
e del consiglio comunale ("ordo decurionum").
La funzione dei singoli ambienti è incerta;
si suppone che al centro vi fosse la Curia, il luogo di riunione dei decurioni
che componevano il senato, mentre ai lati, la sede dei duoviri,
i due "sindaci" che detenevano il potere giurisdizionale,
e la sede degli edìli, assessori al funzionamento della città.
E' da dire, comunque, che queste istituzioni  erano state di fatto svuotate
di ogni effettivo potere da quando Augusto aveva fondato l'impero
I due duoviri e i due aediles. restavano in carica per un anno
ed erano eletti direttamente dal populus,
convocato in assemblea (comitum).
Erano riuniti in due collegi, nei quali i due colleghi avevano pari poteri,
anche se tendenzialmente si alternavano i compiti,
pur riconoscendo un maggior peso all’opinione del più anziano dei due.
Ciascuno, nel suo collegio, aveva diritto di intercessio (veto)
contro le deliberazioni del collega,
dopo aver fatto  un appellatio (appello formale),
ma non si poteva opporre più volte per lo stesso motivo.
I requisiti per essere eletti erano:
possesso di cittadinanza,
essere nati liberi,
avere la residenza nel municipio o comunque nel suo territorio,
essere moralmente ineccepibili,
possedere un ricco patrimonio ed una buona rendita.
Per poter aspirare al duovirato bisognava essere già stati edili
circa tre o cinque anni prima di presentarsi per ricoprire questa carica.



Ai duoviri  spettava la responsabilità della politica comunale:
la gestione finanziaria, la riscossione delle imposte,
la costruzione delle opere pubbliche maggiori (strade, templi, teatri).
Agli edili spettava la gestione ordinaria:
la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici,
la gestione dei mercati e della polizia urbana ("vigiles").
Il termine Vigile viene da Vigilare, cioè sorvegliare
e il nome è rimasto uguale anche ai tempi nostri.
Durante la repubblica la competenza sugli incendi era dei tresviri ,
detti poi anche tresviri nocturni, che si avvalevano di un corpo di schiavi,
di cui si ignora il numero e l'organizzazione.
Fu l’imperatore Ottaviano Augusto, nel 6 d.c. a riformarlo,
fondando la Militia Vigilum,
Lo scopo essenziale dell'istituzione della milizia augustea
fu non solo quello di prevenire e reprimere gli incendi
ma anche quello di punire direttamente o di deferire
al Prefetto dell'Urbe, chiunque per incuria e negligenza,
rendesse possibile o provocasse incendi.
Per sovrintendere a tali incombenze i vigiles
erano opportunamente equipaggiati ed acquartierati
in apposite caserme centrali e in corpi di guardia
o caserme decentrate (excubitorii), distribuiti prevalentemente
presso le porte della cinta muraria
Furono il primo vero corpo di vigili del fuoco
scientificamente organizzati nella storia.
La loro struttura e organizzazione per certi versi
somiglia all’organizzazione attuale dei vigili del fuoco,
Augusto stabilì  che tra i vigili fossero reclutati anche i liberti,
i quali dopo sei anni di servizio, poi ridotti a tre,
potevano ottenere la cittadinanza romana.
Per questo vennero chiamati:i Libertini Miles.
Il loro motto era:"Ubi dolor ibi vigiles"
"Dove c'è il dolore ci sono i vigili).
In ogni reparto c'erano militi specializzati in varie mansioni:
Vigiles acquarii, addetti alle pompe ed alle prese d'acqua
e pertanto paragonabili ai moderni pompieri,
ma pure esperti nella staffetta con i secchi,
Vigiles balneari, incaricati della vigilanza dei bagni pubblici,
Vigiles horreari, sorveglianti nei magazzini,
Vigiles carcerarii, carcerieri
Vigiles quaestionarii, impegnati negli interrogatori dei prigionieri.
Vigiles siphonarii cui spettava il compito di azionare le pompe,
Vigiles sebaciarii,addetti all’illuminazione notturna a
alla luce di torce di sego, per fare la ronda o accompagnare
personaggi importanti.



Il consiglio dei Decurioni, decideva sulle questioni amministrative,
sugli spettacoli, sulla scelta delle commissioni e dei sacerdoti.
Il popolo, che si riuniva in assemblea nella piazza del Foro,
poteva approvare o respingere, per acclamazione,
le proposte dei magistrati.
Il vero governo delle città romane restava comunque nelle mani dell'imperatore.
Ai provinciali restava la politica locale fatta di piccole questioni
Cicerone diceva:
"E' più facile diventare senatore a Roma che decurione a Pompei".
I duoviri, designati con l’appellativo iure dicundo (giurisdicenti),
erano i magistrati supremi ed eponimi (davano il nome all’anno),
motivo per cui ogni atto pubblico riportava i loro nomi per la datazione.
Si occupavano degli interessi della città e dei suoi cittadini,
le cui richieste, espresse in assemblea, venivano poi valutate.
Più in particolare il loro potere si estendeva a quello giudiziario ed esecutivo:
amministravano la giustizia, limitatamente alle cause civili,
attuavano decreti decurionali e dietro lo iussu ordinis
(delibera del consiglio) stipulavano contratti ed appalti,
assumendosi tutte le responsabilità.
Potevano stipulare alleanze ed accordi politici con altre città;
presiedevano l’adeguato adempimento delle festività religiose.
Ogni cinque anni alle loro funzioni ordinarie si aggiungevano
quelle censorie (duoviri quinquennales),
che si basavano sul controllo dello stato giuridico
dei cittadini e sulla consistenza dei loro beni materiali.
Di notevole importanza era la nomina di decurione,
che naturalmente sarebbe diventato uno dei candidati all’edilità.
Per essere nominati quinquennales
i candidati dovevano essere duoviralicii, ossia aver già esercitato
la carica di duoviro almeno una volta.
Questi magistrati erano affiancati da due segretari (scribae)
che redigevano e custodivano gli atti ufficiali.
Avevano, poi, singolarmente, un seguito di nove persone con vari compiti:
due lictores (littori), che nelle manifestazioni pubbliche
facevano da scorta portando i fasci senza la scure, come solo simbolo civile,
due aviatores (fattorini), che recapitavano messaggi ed ordini,
un accensus, che convocava le sedute dell’assemblea,
un librarius (archivista) che teneva i registri patrimoniali,
un tibicen (flautista) che accompagnava i cortei nelle feste religiose,
un haruspex (“indovino”) che interpretava le viscere degli animali ed i fulmini.
Inoltre ogni duoviro possedeva quattro schiavi
fornitigli dalla città (servi publici) gratuitamente.
Gli aediles definiti aediles viis aedibus publicis procurandis
(edili addetti alle strade, agli edifici pubblici e sacri)
erano magistrati di rango inferiore ai duoviri.
Le loro competenze, di tipo amministrativo, erano riservate
alla cura e al controllo di tutte le strutture pubbliche
legate al regolare funzionamento della vita cittadina;
inoltre si occupavano anche di servizi di polizia urbana
e dei servizi annonari, dell’organizzazione dei ludi
e della concessione di permessi per la dedica
di oggetti votivi (altari, statue,)
Anch’essi avevano un seguito sempre fornito dalla città,
benché numericamente ridotto rispetto a quello dei duoviri:
disponevano di uno scriba, di un praecon (araldo),
di un tibicen, di un haruspex,
a cui si aggiungono i quattro servi publici.



Il momento più importante per la vita pubblica era quello delle elezioni,
caratterizzato dalla partecipazione di tutti i cittadini,
anche di coloro che non avevano diritto al voto.
Il momento culmine era quello dell’elezione, ma la parte interessante
è quella legata allo svolgimento della campagna elettorale.
Questa era aperta a tutti i cittadini che volessero, liberamente,
far sentire la propria voce a vantaggio o svantaggio di ciascuno dei candidati;
potevano agire singolarmente, in gruppi di quartiere
o della propria associazione di mestiere.
Gli aspiranti candidati, al momento della candidatura,
dovevano presentare una professio nominis,
cioè una dichiarazione ufficiale, da consegnare entro un giorno fissato,
qualche giorno prima delle votazioni.
Le richieste venivano analizzate da un consiglio
che aveva la facoltà di accettare o meno i candidati;
nel caso in cui il numero degli approvati fosse inferiore a quelli richiesti,
la legge richiedeva che il magistrato qui comitia habere debebit
(che era preposto all’assemblea elettorale)
si occupasse di nominare le persone che gli sembrassero più adatte.
Questi potevano rifiutare la nomina,
ma a loro volta dovevano scegliere altri candidati.
Una volta scelti i candidati, avveniva la proscriptio,
cioè la pubblicazione della lista che veniva posta nel foro,
in modo tale che tutti i cittadini potessero facilmente leggerla
(ut de plano recte legi possint).
Per aprire la campagna elettorale bisognava attendere
la professiones petentium cioè l’accettazione delle candidature
al magistrato incaricato di presiedere lo scrutinio,
e che i nomi fossero pubblicati.
I candidati generalmente erano i membri delle famiglie più ricche,
che, per tradizione o motivi contingenti, si spartivano
le cariche tra di loro, magari accordandosi nell’alternanza delle candidature.
Solo dopo la pubblicazione dei nomi iniziava la campagna
delle raccomandazioni elettorali
che era la parte più viva, più dinamica e più sentita dagli elettori
e che di fatto coinvolgeva enormi masse di cittadini.
Nei testi elettorali ciascuno viene presentato come campione d’onestà,
saggezza e capacità, oltre ad essere esaltato come
vir bonus et egregius (galantuomo),verecundissimus (assai modesto),
dignissimus (molto virtuoso), benemerens (meritevole d’ogni bene),
frugis (parco), integrus (integerrimo),
innocens (incapace di far del male).
E come diremmo noi: Chi più ce ne ha, più ce ne metta.
D'altra parte il termine candidatus significa "vestito di bianco"
dalla toga di seta bianca che gli aspiranti ad una carica dello Stato
indossavano e che era segno di purezza e di candore,
virtù indispensabili per un rappresentante del popolo.



Spesso anche la menzione del padre era utile,
non solo per la specificazione onomastica, ma anche perché
poteva essere una garanzia se il nome paterno
poteva rievocare qualcosa di buono ai concittadini;
per non parlare poi dell’importanza che aveva
la menzione di altri personaggi, magari pubblici.
Attribuire ai candidati tutte queste buone qualità
era di certo la cosa più ovvia da fare,
tanto più che puntare sulle doti morali era il mezzo migliore
per suscitare l’ammirazione della popolazione.
Non vi era preclusione per nessuno anche perché
i mezzi di comunicazione erano limitati:
oltre alla propaganda orale e alle raccomandazioni,
non rimanevano infatti che le scritte murali o i manifesti, dipinti sui muri
con vernice rossa o nera su uno strato di intonaco.



E' proprio nell'Antica Roma che cominciò la pratica della raccomandazione<
del clientelismo e della corruzione, in barba alle virtù decantate del candidato.
Il cliens  era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata
all'interno della società, si trovava costretto a ricorrere
alla protezione di un "patronus" o di una intera "gens"
in cambio di svariati favori, fra i quali il voto nelle assemblee.
La campagna elettorale veniva condotta in prima persona dal candidato,
supportato dai suoi sostenitori e suffragatores (procacciatori di voti),
che poteva allearsi anche con i candidati ad altre cariche,
creando vere e proprie coalizioni in cui si riunivano di solito quattro personaggi
(solitamente due del duovirato e due dell’edilità) che, così uniti,
si presentavano agli elettori suscitando maggior fiducia e richiamandone il voto.
Durante la campagna la sollecitazione degli elettori era il più possibile
diretta ed orale: in origine era lo stesso candidato
a relazionarsi direttamente con i singoli cittadini per chiedere di votarlo;
sottrarsi a quest’obbligo era recepito come sintomo di arroganza
e suonava come offesa verso gli elettori.
La richiesta del voto era tenuta così in gran conto che,
nel caso di un exequo, si arrivava a preferire quello che,
nella campagna elettorale si era mostrato il più insistente ed attivo,
perciò più umile, nel richiedere voti a suo favore.
Il rituale della richiesta prevedeva di frequentare quotidianamente il foro,
dove il candidato doveva recarsi con clienti, amici e sostenitori,
all’incirca sempre alla stessa ora per evitare l’incontro con i rivali
e per scegliere il posto migliore da cui parlare con gli elettori.
La cosa migliore era andare incontro ad ogni elettore
chiamandolo per nome e, prendendogli la mano supplicarlo di votarlo,
ricordandogli i favori passati e quelli che avrebbe potuto ricevere in futuro.
Con il tempo questo tipo di propaganda fu sostituita da quella condotta,
per conto dei candidati, da sostenitori singoli o da gruppi organizzati;
ma con il tempo anche questa forma di propaganda orale
fu soppiantata dai “manifesti“ scritti.



La legge tentava di frenare la corruzione e i tentativi
di persuasione dei cittadini, soprattutto di quelli meno abbienti,
vietando ogni iniziativa pubblica di munificenza e beneficenza.
Era inoltre proibito fare regali ed elargizioni a chiunque,
organizzare feste e giochi o invitare a pubblici banchetti.
In sostanza in campagna elettorale era vietato fare qualsiasi attività
per impressionare gli eventuali elettori, i giochi dovevano già essere fatti,
ci si poteva affidare solo ai manifesti elettorali.
Esistevano le spese elettorali, solitamente alte, a carico del candidato,
che in caso di elezione venivano rimborsate tramite l'ornatio.
Confessa Cicerone che occorreva essere molto ricchi
per aspirare a cariche politiche; chi non aveva mezzi,
"facultates non erant", doveva starsene in disparte.
La propaganda elettorale trovava ambiente favorevole
nelle taverne e thermopolia, dove davanti ad un piatto caldo
si discuteva meglio sui meriti di un candidato.



I manifesti elettorali  venivano chiamati "programmata"
Essi sono classificabili nella categoria dei tituli picti,
cioè iscrizioni parietali generalmente dipinte su muri
Le iscrizioni rinvenute si riferiscono ad una serie
di campagne elettorali, di cui le più vecchie del periodo augusteo,
mentre le più recenti di un secolo più tardi:
ciò fa pensare che essi non venissero cancellati
alla fine di ogni campagna elettorale.
Ovviamente, però, la maggior parte dei manifesti
appartiene alla fine del periodo della città,
più propriamente al periodo compreso tra
il principato di Nerone e quello di Tito (62-79 d.C.).
In linea di massima i manifesti consistono in un brevissimo testo,
con un formulario molto semplice che si basa sul nome del candidato,
la carica a cui ambisce e la richiesta di voto,
che viene espressa con la formula OVF,
cioè oro vos faciatis ( “vi prego di eleggere”).
Quasi sempre abbreviate sono anche le parole riferite alla carica
a cui si ambisce; è il caso di IIviro IIvir i d,
che sta per duoviro iure dicundo,
aed che indica aedilem, quinq che sta per quinquennalem.
Non di rado dopo la carica si trova la sigla DRP, che significa dignum rei publicae,
ossia “degno della pubblica amministrazione”.
Accanto ai manifesti più comuni ne esistono alcuni con aggiunte
rispetto al formulario, per così dire, di “base”:
si tratta soprattutto di espressioni relative ai meriti
e alle capacità del candidato, alle promesse o agli impegni assunti,
queste dichiarazioni avevano il duplice scopo di mostrare ai candidati
l’impegno di chi li sosteneva e di fornire agli incerti
le qualità di chi potevano votare.
Quanto alla dislocazione dei manifesti, mentre è possibile
che non ci fossero luoghi appositi su cui scrivere,
è certo che non ce ne fosse alcuno vietato.
È ovvio però che si preferissero le strade più importanti
 che si addensassero nelle posizioni più strategiche della città;
ne troviamo sui muri delle case dei cittadini più ricchi ed influenti,
nei centri dove si radunavano i gruppi più importanti,
ma non mancano iscrizioni anche nel suburbio,
nelle ville signorili, nelle fattorie agricole
e sulle basi delle statue di divinità poste ai crocicchi delle strade.
Addirittura alcune si trovano anche sulle pareti dei monumenti sepolcrali.



Anche se chiunque avrebbe potuto scrivere un manifesto,
esistevano degli scriptores, professionisti dei manifesti,
che nel resto dell’anno si occupavano di ogni genere di avvisi;
gli scriptores non erano molti, infatti
in tempo di elezioni esistevano degli scriptores ausiliarii,
che coadiuvavano quelli già esistenti.
Il loro lavoro si svolgeva di notte, quando la città era naturalmente più tranquilla
e nessuno avrebbe potuto recare alcun fastidio o disturbo;
essi agivano in squadre, che erano composte da uno scriptor,
un dealbator (imbianchino), uno scalarius,
che portava le scale ed un lanternarius, che doveva far luce.
Anche se molti sono sbiaditi e appena leggibili, sono ancora lì
a tappezzare i muri degli edifici pubblici e privati,
delle botteghe e dei ritrovi più frequenti,
Ecco alcuni testi:
"Vi prego di eleggere Lucio Rusticelio  Celere che è degno della municipalità".
"Si invita a votare Bruttio Balbo che conserverà la cassa municipale".
"Vi prego di eleggere "Giulio Polibio"edile fa del buon pane".
"Votalo e lui ti voterà quando sarà il tuo turno!",
"Votalo, perché durante il suo precedente mandato
non è morto neppure un asino !".
Ovviamente la gente della strada si divertiva ad aggiungere
commenti velenosi, così una volta un benpensante
ha aggiunto "Per ambizione quante bugie si scrivono!".



I magistrati, rinnovati ogni anno, venivano i giudicati,
positivamente o negativamente dai cittadini;
attraverso le iscrizioni murali
qualcuno sarà stato anche infastidito dalla cosa
tant’è vero che qualcuno, sempre sui muri, scrisse
“Mi meraviglio, o parete, che tu non sia ancora crollata
sotto il peso delle scempiaggini di tanti scribacchini”
(admiror paries te non cecidisse ruinis
qui tot scriptorum taedias sustineas
).
Per quanto riguarda le votazioni, avevano diritto al voto
tutti i cittadini liberi di sesso maschile
enza distinzione di censo e di ceto sociale.
Erano esclusi le donne, gli schiavi, gli schiavi affrancati ("liberti"),
i gestori di bordelli e di compagnie di circo, gli attori
e tutti quelli impegnati in attività ritenute poco decorose.
La città era divisa in circoscrizioni elettorali,
che non erano altro che i quartieri;
il cittadino, il giorno stabilito per le votazioni,
si recava nel Foro dove c’era un edificio, il Comitium,
già suddiviso in settori, e ordinatamente votava nella sezione a cui apparteneva.
Era posto sul lato meridionale del Foro, ad angolo con Via dell'Abbondanza.
Incassi nelle colonne sul lato del foro
hanno fatto supporre che fosse chiuso con una cancellata.
Il cortile centrale era scoperto.
Gli elettori entravano dal lato del foro e procedevano verso il podio a sud,
ovvero a destra dell'ingresso, dove sedevano i magistrati
che presiedevano il seggio e che verificavano
se i votanti avessero o meno diritto al voto.



Il suffragium (voto) veniva espresso per iscritto
tramite una tabella cerata su cui si incideva
il nome del candidato che si voleva eleggere.
La scheda veniva posta in un’arca (urna) o una cista (canestro)
che si trovava in ogni sezione, sorvegliata da tre membri di un’altra sezione.
Prima del voto, però, si effettuava un controllo dei votanti,
che se erano considerati idonei ricevevano
una tesserula (gettone) che al momento del voto
consegnavano ad un incaricato, ricevendo la tavoletta
per scrivere il nome del candidato.
Tramite i gettoni si poteva avere una percentuale dei cittadini
che si erano effettivamente recati alle urne.
Ultimate le votazioni si procedeva allo spoglio e i risultati
venivano resi noti, sezione per sezione,
al presidente dell’assemblea elettorale che provvedeva a riunirli;
quindi avveniva la pubblica proclamatio (elezione).
cioè la proclamazione gli eletti per ciascuna delle cariche.
Vinceva chi fosse stato designato nel maggior numero di sezioni,
quindi non bastava avere il maggior numero di voti in assoluto,
Le elezioni avvenivano a Marzo.

 





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