!
Privacy Policy POMPEI RELIGIONE


POMPEI




 
 


RELIGIONE

La "religione romana" era politeista e fu un fenomeno molto complesso.
Essa fu influenzata sia dalle tradizioni religiose dei popoli
abitanti la penisola italica (Etruschi, Sabini, Sanniti, Latini),
sia, dopo la conquista della Grecia, dalla religione greca.
Una delle caratteristiche della religione romana fu infatti,
quella di essere aperta nei confronti delle religioni di altri popoli,
di cui spesso assimilò divinità, credenze e riti.
La pax romana (pace romana) consisteva proprio in questo:
rispettare le tradizioni religiose, politiche e sociali
dei popoli conquistati e integrarle
con la legge e la giurisdizione di Roma.
Simbolo di questa comunione religiosa è il Panteon
un piccolo tempio dedicato a tutte le divinità romane.

Il nome deriva da due parole greche: pan, "tutto" e theon "divino"
e fu fatto erigere tra il 27 e il 25 a.C. dal console Agrippa,
prefetto dell'imperatore Augusto.
Domiziano nell'80 d.c., lo ricostruì dopo un incendio ma
trent'anni dopo fu colpito da un fulmine e prese nuovamente fuoco.
Fu allora ricostruito nella sua forma attuale dall'imperatore Adriano,
sotto il cui regno l'impero di Roma raggiunse il culmine del suo splendore,
ed è probabile che la struttura attuale sia frutto
proprio del suo genio eclettico dai gusti esotici.
Michelangelo la considerava opera di angeli e non di uomini.
Il punto in cui sorge non è casuale ma è un luogo
 leggendario della storia della città.
Secondo una leggenda romana, infatti, questo era il posto dove
il fondatore di Roma, Romolo, alla sua morte fu afferrato
da un'aquila e portato in cielo fra gli dei.



La religione romana aveva una funzione prevalentemente
sociale e politica,per mezzo della quale tutti i sudditi
erano chiamati a riconoscere ed onorare
la potenza divina grazie alla quale l’impero esisteva.
Essa non affondava le sue radici nella coscienza degli uomini,
non li aiutava nei momenti difficili, non consolava i loro dolori
e non forniva speranze per questa e per l’altra vita,
ma, nello stesso tempo, era una religione molto concreta
e, per così dire...a misura d'uomo, da contadino
che vedeva la natura crescere e morire.
Essa era costruita sulle tradizioni più antiche
correggendone le eventuali barbarie e violenze,
secondo le esigenze dello Stato e mai in contrasto con esso.
I rapporti con gli Dei erano un patteggiamento onesto,
rigoroso, prudente, di dare e avere.
Questa religione affondava le sue radici, tanto lontano nel tempo,
che, col passare degli anni, nessuno più, neanche i sacerdoti,
conosceva la provenienza delle preghiere
che venivano recitate automaticamente.
Per i Romani gli dei non avevano, contrariamente ai Greci,
vizi e virtù: essi erano esseri superiori e basta.
Ognuno, nella vita privata, adottava un suo Dio
al quale si rivolgeva in caso di bisogno
(come oggi verso i nostri Santi) senza tralasciare
di sacrificare agli altri, nei giorni stabiliti dai Pontefici.

I Romani, superato il naturismo della religione primitiva,
adottarono un gran numero di dei
ognuno legato a un fenomeno e a un'attività umana,
per cui si sapeva bene in ogni occasione,
quale di essi bisognava pregare..
A questi Dei Varrone dà il nome di "Dei certi",
distinti dagli "Dei incerti", dei quali si era perduto
il significato del nome, ma non si era abbandonato il culto.
Varrone distingueva, prima che si diffondessero a Roma
i miti greci, anche una terza categoria di Dei
col nome di "Dei precipui" o "Dei maggiori",
in numero ristrettissimo.
Essi erano divinità capaci di un'attività più vasta,
che andava oltre il singolo oggetto o il singolo atto,
non dotati ancora della piena personalità, ma con tendenza
e possibilità a divenire dèi personali.
Di molti dèi certi ricorrevano i nomi negli Indigitamenta,
formule sacre con le quali s'invocavano le divinità,
perché fossero propizie ai singoli atti della vita,
sia privata che pubblica, alle imprese
d'ogni genere, singole o collettive.
Era della massima importanza che s'invocasse, caso per caso,
la divinità prestabilita, chiamandola col nome
e con gli epiteti a essa propri e con la formula dovuta:
qualunque errore commesso nel formulare l'invocazione
ne rendeva nullo l'effetto.
Tali formule erano custodite dai pontefici nel più gran segreto,
poiché, se conosciute dai nemici, avrebbero potuto essere
da questi usate a danno dello stato romano.
Le divinità da invocare erano innumerevoli, e si poteva indigitarne
una sola o molte contemporaneamente; e siccome,
malgrado ogni precauzione, si poteva cadere
in qualche errore di formulazione,
si aggiungevano, alla fine dell'invocazione,
delle frasi generiche intese a stornare l'eventuale danno



Si riteneva che l'autore fosse Numa Pompilio,
ma l'elaborazione delle liste di nomi di divinità
destinate a essere invocate sia nei sacrifici pubblici,
sia in quelli privati fu lunga e si protrasse fino al III secolo a.C..



Conosciamo, per esempio, la serie di dodici divinità
protettrici dei lavori dei campi derivata da Fabio Pittore:
Vervactor, Redarator, Imporcitor
(dèi della prima aratura e della successiva),
Sarcitor (della sarchiatura), Messor (della mietitura),
Convector (del trasporto del grano nei granai) ecc.
Molte divinità attendevano anche all'allevamento dei bambini,
dal concepimento ai primi passi e alle prime parole.
Questa religione romana, anteriore agli influssi greci ed etruschi,
non aveva un vero contenuto dottrinale, ma era fondata
su basi morali di onestà e di rettitudine e in essa
avevano parte due antichissime forme religiose:
il culto del focolare domestico (Lares, Penati)

e il culto dei defunti (Manes) che proteggevano tutta la famiglia
compresi gli schiavi e per i quali nelle  case
ardeva, custodito e venerato, un fuoco perenne
nei luoghi più riposti  e verso i quali
venivano adempiuti riti propiziatori.
I Lari (dal latino lar(es), "focolare",
derivato dall'etrusco lar, "padre")
rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti
che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento
della famiglia, della proprietà o delle attività in generale.
Agostino di Ippona nella sua opera "La città di Dio",
in cui cita Apuleio,dice che sono le anime dei defunti buoni:
Nell'opera si dice:« afferma (Apuleio) inoltre che
anche l'anima umana è un demone
e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene,
fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che
sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione.»
Naturalmente, i più diffusi erano i Lares familiares,
L'antenato veniva raffigurato con una statuetta,
di terracotta, legno o cera, chiamata sigillum
(da signum, "segno", "effigie", "immagine").
All'interno della domus, tali statuette venivano collocate
nella nicchia di un'apposita edicola detta larario e,
in particolari occasionio ricorrenze,
onorate con l'accensione di una fiammella.



Ogni avvenimento importante era messo
sotto la protezione dei Lari
con sacrifici e offerte: per esempio
il raggiungimento dell'età adulta,
la partenza per un viaggio oppure il ritorno di qualcuno,
il matrimonio, le nascite.
Servio Mario Onorato scrisse che il culto dei Lari
era stato indotto dall'antica tradizione
di seppellire in casa i morti.
Secondo la testimonianza di Plauto i Lari
venivano rappresentati come cani e le loro immagini
venivano conservate nei pressi della porta di casa.
Una fra le più diffuse iconografie li presenta
come giovinetti che indossano una corta tunica ed alti calzari,
mentre versano del vino dal rhyton in coppe.

I Penati erano esseri spirituali, simili agli angeli del cristianesimo,
Erano gli Spiriti Protettori e si distinguevano in:
Penati familiari o minori protettori di una famiglia e della sua casa
e Penati pubblici o maggiori protettori dello Stato.
Il nome deriva dal latino "Penus": "tutto ciò di cui gli uomini si nutrono".
Si può dire anche che Penus non deriva solo dal latino
ma può anche dipendere dal fatto che i Penati,
risiedevano nel penitus,
la parte più interna della casa, dove si teneva il cibo.
Ogni famiglia aveva i propri Penati, i quali venivano trasmessi
in eredità alla stregua dei beni patrimoniali.
Il sacrificio ai Penati poteva avere cadenza quotidiana od occasionale.



I Manes erano.... le ombre, ovvero gli spiriti dei morti, solitamente buoni
che si pensava continuassero ad esercitare la loro influenza sugli uomini,
Il nome era usato al plurale anche se ci si riferiva a un singolo morto.
Tito Livio cita un episodio in cui l'invocazione agli dei Mani è legata
a una devotio (autosacrificio agli dei inferi):
durante il consolato di Quinto Servilio Aala
e di Lucio Genucio Aventinese, eletti nel 362 a.C..
La leggenda narra che nel 362 a.C. nel Foro Romano si apri
una voragine apparentemente senza fondo.
I sacerdoti interpretarono il fatto come un segno di sventura,
predicendo che la voragine si sarebbe allargata fino ad inghiottire Roma,
a meno che non si fosse gettato in quel baratro
quanto di più prezioso ogni cittadino romano possedesse.
Il giovane patrizio Marco Curzio, uno dei più valorosi guerrieri
dell'esercito romano, convinto che il bene supremo di ogni romano
fossero il valore e il coraggio, si lanciò nella fenditura
armato ed a cavallo, facendo così cessare l'estendersi della voragine.
Il luogo dove si formò la voragine rimase nella leggenda
con il nome di Lacus Curtius.



Curiosità: Antonio de Curtis, in arte Totò, sosteneva
che la sua famiglia discendesse da questo personaggio leggendario.
I Mani erano oggetti di culto: si offriva loro latte, grano misto a sale
e "pane inzuppato nel vino e viole disciolte
dentro un coccio lasciato nella strada".
In loro onore si tenevano due feste: i Lemuria e i Parentalia.
I Lemuria si festeggiavano il 9, 11, 13 maggio.
Non si conoscono cerimonie pubbliche relative mentre
il culto domestico è descritto da Ovidio nei Fasti:
il pater familias percorreva la casa di notte
e faceva loro un’offerta di fave nere gettandole dietro di sé
senza voltarsi indietro e battendo recipienti di bronzo
pronunciava la formula "Manes exite patern",
«uscite o spiriti degli antenati».

I Parentalia si svolgevano nel mese di febbraio
dalle idi (13 febbraio) al 21 febbraio, giorno riservato
alla celebrazione delle feralia la vera e propria festa dei morti.
Si credeva in tal giorno che le anime dei defunti
potessero girare liberamente tra i vivi.

Ovidio (Fas. II, 571-615) ricorda la dea Tacita o Muta
o Lara ed il rito a lei dedicato.
Questo prevedeva che una vecchia attorniata da fanciulle
ponesse tre grani d'incenso sotto la porta,
legasse fili ad un fuso scuro e si mettesse in bocca sette fave nere.
Doveva quindi bruciare su un fuoco una testa di pesce
impeciato e cucito con amo di rame e spargervi sopra vino,
bevendone poi con le fanciulle il residuo.
Un mito eziologico racconta che
la vecchia rappresenterebbe la ninfa Lala o Lara,
sorella di Giuturna, punita da Giove col taglio della lingua
e la morte per aver rivelato a Giunone i suoi amori con Giuturna.
Secondo questo mito i Lares sarebbero due gemelli da lei partoriti
a seguito della violenza fattale da Mercurio
nel condurla all'Ade per ordine di Giove.
Durante queste festività, i templi erano chiusi, i matrimoni proibiti,
gli affari sospesi, i magistrati non indossavano la toga pretesta.
I parenti visitavano le tombe dei loro cari portando offerte di vario tipo.
L’ultimo giorno dei Parentalia, ovvero il 21 febbraio,
era chiamato Feralia e dedicato a cerimonie pubbliche
con offerte e sacrifici ai Mani (Manes),
che, si pensava  vivessero nel cosiddetto mondo inferiore
e che potessero tornare per tre volte ogni anno
con la forma che avevano in vita per visitare i loro discendenti.
Erano considerate divinità inferiori alle quali si offrivano
in sacrificio delle pecore nere, vino, latte e profumi.
Il loro culto terminò con Teodosio.



Il Feriale dei Decenviri è la fonte più sicura per conoscere
le divinità maggiori anteriori agli influssi greci,
gli "Dei precipui", di Varrone, a cui si riferivano
la maggioranza delle 45 feste fisse dell'anno stabilite nel feriale,
parte fondamentale del calendario fissato dai Pontefici.
Si tentò di raccogliere questi dèi precipui sotto varie categorie:
divinità dei grandi fenomeni ed elementi naturali,
dell'agricoltura e della pastorizia,
della famiglia e dello Stato, della vita intera,
ma sono classificazioni improprie perché una stessa divinità
presenta caratteristiche collegate con più categorie.



Nella religione romana fin dai tempi più antichi il Dio supremo era Giove,
dio del cielo e dei fulmini e fecondatore della terra mediante la pioggia.
Giove in antichità era associato ad altre due divinità
nella cosiddetta "Triade Arcaica", formata da Marte,
dio della natura, difensore dei campi
dalle malattie e dalle razzie nemiche e quindi dio della guerra
e da Quirino che, dopo il III secolo a.C., venne identificato
con Romolo,il fondatore di Roma.
Poco più tardi Giove venne associato ad altre due
divinità femminili nella "Triade Capitolina",
formata da Minerva,dea degli artigiani, e Giunone, sposa di Giove,
dea del cielo notturno e dei noviluni e protettrice delle partorienti.

Oltre a questi dei ne esistevano altri come Fortuna,
Venere, divinità degli orti, Diana, Mercurio e Cerere.
Quando Roma conquistò la Grecia, gli dei romani vennero identificati
con gli dei greci, così, ad esempio, Giove fu identificato in Zeus,
Giunone in Era, Minerva in Atena, Marte in Ares,
Diana in Artemide, Venere in Afrodite,
Mercurio in Ermes e Cerere in Demetra.
Oltre a queste divinità venne introdotto il dio greco Apollo.

Ad ogni conquista, agli dei che già si veneravano se ne aggiungevano altri
originali delle regioni conquistate.
Nel periodo imperiale l'imperatore
 non era considerato un dio, fino a quando non moriva;
solo allora veniva divinizzato;
ma ci furono imperatori che richiesero gli onori anche in vita.
La religione romana si diffuse molto nell'impero occidentale,
ma non sostituì completamente le usanze locali anche perché
i Romani non cercavano di imporla ai popoli sottomessi;
ogni popolazione, infatti, poteva tranquillamente
seguire le proprie usanze e religioni.
Altri dei venerati furono Neriene, la dea bellissima
sposa di Marte e Giano,che si rappresentava
con due facce (Giano bifronte)
tutore delle porte di casa e della città (ianua);
aveva un tempio nel foro romano, le cui porte si aprivano
in tempo di guerra e restavano chiuse in tempo di pace.
Già gli antichi mettevano il nome del dio in relazione al movimento:
Macrobio e Cicerone lo facevano derivare dal verbo ire
"andare",perché secondo Macrobio
il mondo va sempre, muovendosi in cerchio
e partendo da sé stesso a sé stesso ritorna.

Giano è una divinità esclusivamente romano-italica,
la più antica tra gli Dei nazionali, invocata spesso insieme a Iuppiter.
Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale
ad un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici
erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali
della raccolta e della semina.
Giano fu probabilmente la divinità principale del pantheon romano
in epoca arcaica ed anche Sant'Agostino nella sua "Città di dio" (VII, 9)
ricorda che “ad Ianum pertinent initia factorum”
e come perciò al Dio competa “omnium initiorum potestatem”.
In particolare rimarrebbe traccia di questo fatto
nell'appellativo Ianus Pater che permase anche in epoca classica.
Nel mito Giano avrebbe regnato come primo Re del Latium
fondando una città sul monte Gianicolo e donando la civiltà
agli originari abitanti.
Con la ninfa Camese avrebbe generato inoltre numerosi figli,
tra i quali il dio Tiberino signore del Tevere.
Secondo la leggenda fu lui ad accogliere Saturno,
spodestato dal figlio Giove, condividendo con lui la regalità
e consentendogli di portare l'età dell'oro.
Per l'ospitalità ricevuta, Giano ricevette dal dio Saturno
il dono di vedere sia il passato che il futuro.



Tra gli dèi protettori dell'agricoltura e della pastorizia oltre Marte,
ricordiamo Conso, dio della raccolta dei prodotti nei granai
e dei giumenti adibiti al loro trasporto,
caduto poi in dimenticanza e Saturno a cui erano dedicati i Saturnali
che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre
(periodo fissato in epoca imperiale da Domiziano).
I Saturnali avevano inizio con grandi banchetti e
sacrifici, in un crescendo che poteva anche assumere
talvolta caratteri orgiastici
I partecipanti usavano scambiarsi gli auguri
accompagnati da piccoli doni simbolici, detti strenne
Durante questi festeggiamenti era sovvertito l'ordine sociale:
gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente degli uomini liberi,
e come questi potevano comportarsi.
Veniva eletto, tramite estrazione a sorte, un princeps
-una sorta di caricatura della classe nobile-
a cui veniva assegnato ogni potere.
 Il "princeps" era in genere vestito con una buffa maschera
e colori sgargianti tra i quali spiccava il rosso (colore degli dèi).
Era la personificazione di una divinità infera, da identificare
di volta in volta con Saturno o Plutone, preposta alla custodia
delle anime dei defunti, ma anche
protettrice delle campagne e dei raccolti.

Altre divinità erano:
Flora e Pomona che erano rispettivamente,
la dea dei fiori e quella dei frutti,
Fauno e Fauna divinità della pastorizia e delle greggi.
Nel gruppo delle divinità protettrici della famiglia,
oltre Giunone va ricordata la Mater Matuta, dea della luce mattutina
e quindi anche della nascita, cui erano dedicate le Matralia dell'11 giugno.
Secondo Plutarco sarebbero state istituite da Marco Furio Camillo
che, eletto dittatore nel 396 a.C., dovendo assediare
la città etrusca di Veio,avrebbe fatto voto di dedicare
un tempio alla Mater Matuta in caso di vittoria
L'intero mese di giugno nel Calendario Romano era posto
sotto la protezione di Giunone, dalla quale secondo Ovidio
il mese derivava il nome (Iunius da Iuno)
e quindi si svolgevano in esso alcune festività
a carattere prevalentemente e talvolta esclusivamente femminile.
Probabilmente in questa occasione la Mater Matuta costituiva
un aspetto della Bona Dea; infatti "Matuta"
derivava appunto da "bontà" .
Come cerimonia in sé era molto semplice e di evidente origine
arcaica ed agricola, consistendo nell'offerta di una focaccia abbrustolita
sul testum e posta dalle matrone sull'altare della dea.
La cerimonia dei Matralia era rigidamente riservata e ristretta
alle donne libere e questo probabilmente spiega l'usanza
narrata da Plutarco di condurre una schiava nel tempio
durante la cerimonia per poi percuoterla e cacciarla fuori.
Un'altra usanza connessa con la festa, era quella di portare in braccio
al tempio non i propri figli ma quelli dei fratelli.
Come rituale appare abbastanza strano se non conosciamo
il ruolo fondamentale che la zia materna (matertera)
aveva nella famiglia romana.
La matertera fungeva infatti da "seconda madre",
prendendo il posto della sorella quando questa veniva a mancare,
come educatrice e garante dell'affetto dovuto ai figli dalla gens.
La controparte negativa della matertera era la balia,
la nutrice, quasi sempre una schiava, che nel rito rappresentava
le paure della famiglia per il figlio, che poteva non essere cresciuto
in maniera adatta in quanto affidato alle cure di un'estranea.
Ovidio tenta di darne una spiegazione di tipo mitologico,
partendo dal mito greco di Leucotea e Palemone:
nella sua versione, Leucotea, gettatasi in mare
portando tra le braccia il piccolo nipote Palemone
per salvarlo dal padre reso pazzo da Giunone;
(da qui l'uso di portare in braccio al tempio i nipoti),
fu portata dalle Naiadi sino alla costa del Lazio
e una volta giunta a terra, dopo varie disavventure
fu soccorsa da Carmenta, madre di Evandro, che per rifocillarla
le offrì una focaccia, il cui ricordo
si sarebbe perpetuato nel rito dei Matralia.
Stabilitisi nel Lazio, Leucotea e Palemone avrebbero assunto
i nomi di Mater Matuta e Portuno divenendo divinità italiche.



Questo mondo divino, primitivo e complesso, venne alterandosi
con l'infiltrarsi in Roma di divinità straniere.
Le più notevoli importazioni furono quelle dovute agli Etruschi e ai Greci,
con sovrapposizioni e numerose identificazioni:
Giove con Zeus, Diana con Artemide, Saturno con Crono,
Nettuno con Posidone, Venere con Afrodite, Vulcano con Efesto,
Mercurio con Hermes, Cerere con Demetra, ecc.
I Romani, rispettosi della religione, furono anche
scrupolosi osservatori delle cerimonie del culto,
alle quali provvedevano i collegi sacerdotali
come quello dei Flamini, addetti al culto di determinare divinità
(Giove, Marte, Quirino ecc.);
degli Auguri, incaricati di leggere la volontà degli dei
interpretandone i segni (il tuono, il lampo, il volo degli uccelli);
dei Salii, che celebravano particolari riti in onore di Marte
e delle sei vergini Vestali che, in un tempio posto nel Foro,
serbavano perennemente acceso il fuoco di Vesta,
simbolo della grande famiglia comprendente l’intero popolo romano.
Il più importante di questi però era  quello dei Pontefici,
presieduto dal Pontefice Massimo capo della religione romana,
scelto fra i cittadini più eminenti.
Essi dirigevano tutto ciò che aveva attinenza con la religione:
regolavano il calendario, tenevano l'elenco dei magistrati eletti
e redigevano una cronaca degli avvenimenti più importanti.
Nell’età monarchica era il re a presiedere alla vita religiosa;
con la repubblica la funzione fu ereditata dai consoli.
Una forma particolarmente solenne di sacrificio erano i Suovetaurilia,
che consisteva nel sacrificare un porco, una pecora e un toro (suovetaurilia)
dopo averli condotti in processione tre volte intorno alla città.
La più antica testimonianza dei Suovetaurilia presenti,
anche presso i Greci, è quella fornita da Omero nell'Odissea,
dove si riferisce che l'indovino Tiresia esorta Ulisse
a sacrificare un maiale, un montone e un toro al dio Poseidone.
Ancora nell'Odissea si parla del medesimo sacrificio
alla corte del re dei Feaci.
Tale invocazione rituale era causata da ogni circostanza che
richiedesse l'intervento degli dèi per invocarne i favori
o per rimediare a degli errori causati involontariamente,
ad esempio proprio durante un sacrificio, il che, in questo caso,
richiedeva un nuovo sacrificio con una vittima di maggiore valore.
Questo rito si celebrava durante le feste Ambarvalia,
(amb-«attorno», e arvum< «campo arativo»).
celebrate in maggio in onore di Marte prima, poi di Cerere,
a cura del sodalizio dei fratelli Arvali per purificare
le messi e allontanare i cattivi influssi.
Così costruita la religione manteneva uniti i cittadini allo Stato;
perciò all'avvento della nuova religione, il Cristianesimo,
i suoi sacerdoti non ritennero opportuno far abiurare
gli usi e i costumi precedenti e li incamerarono.

Pompei era una zona di grossi traffici, in quanto occupava
una posizione topografica di strategica importanza
ai fini delle relazioni commerciali con altri popoli.
Questa stessa posizione favoriva lo sviluppo di un ambiente cosmopolita
e quindi una fioritura e una mescolanza di religioni diverse.
Oltre i primi culti osco sannitici e italici, i pompeiani
amavano Ercole che ritenevano fondatore e protettore della loro città
e al quale fin dal VI sec. a.C. avevano dedicato
il Tempio Dorico del Foro Triangolare.

Ad Ercole, come nume tutelare della città e protettore
delle vigne dell'agro vesuviano, i pompeiani avevano associato Bacco,
il cui culto era molto vivo nelle città ma soprattutto nelle campagne,
dove veniva invocato per la prosperità dei vitigni,
fonte prima di guadagno e di ricchezza per l'economia pompeiana.
A Dioniso (nome greco del dio del vino) erano dedicati
i giardini, dove la sua presenza veniva vissuta quotidianamente
attraverso i simboli del suo culto:
ghirlande di edera, uva, maschere satiriche
immagini delle divinità boschive del suo corteggio
(Satiri, Sileni, Fauni, Ninfe).
Un posto privilegiato nella sensibilità religiosa dei pompeiani
era occupato da Venere, divinità campana legata all'agricoltura;
era conosciuta nella città come Venus Synthrophos e Venus Physica,
attributi di matrice naturalistica e fu assimilata
alla Venus Felix di Silla, divinità protettrice della gens sillana,
quando nell'80 a.C. il dittatore prese il potere in Pompei
e assegnò alla città il nome di Colonia Cornelia Veneria Pompeianorum.
L'adesione alla sovranità di Roma si esprimeva invece
attraverso il culto della triade capitolina:
Giove, Minerva e Giunone.
Giove, col nome di Jupiter Optimus Maximus era riverito
nel monumentale Tempio di Giove Capitolino installato nel Foro.
Anche Giunone era venerata nel Capitolium, ma le tracce del suo culto
non sono altrettanto evidenti.
Non minore era l'attaccamento dei pompeiani per Minerva,
che era stata consacrata quale protettrice della corporazione
dei fulloni e fin dall'età sannitica era ritenuta patrona delle porte della città.
Era venerata nel Capitolium, ma anche alcune pitture testimoniano
la devozione per questa dea.
Vivo era anche il culto di Apollo, che fu diffuso in Campania,
in Etruria e a Roma dai greci di Cuma.
Un posto importante nel cuore del pompeiano occupava il culto dei Lari,
ossia la religione che egli viveva quotidianamente
nel rispetto degli antenati e delle divinità che
sentiva più vicine alla sua sensibilità.
Tollerati furono a Pompei anche i culti orientali,
specie quello di Iside, protettrice dei marinai;
verso la fine del II sec. a.C. a questa divinità egizia
era stato dedicato un tempio che fu distrutto dal terremoto del 62
e successivamente ricostruito su pianta italica.
Il culto isiaco ebbe un numero considerevole di fedeli
ed era vissuto dai devoti attraverso cerimonie quotidiane e feste periodiche.
Alcune scritte in lingua ebraica, come la famosa Sodoma e Gomorra,
qualche statuina e tracce di onomastica di origine ebraica
fanno pensare altresì ad una presenza giudaica nella città.

Testimonianze concrete, oggettivamente certe,
di una presenza cristiana a Pompei non si hanno,
almeno stando alle diverse interpretazioni di graffiti,
scritti e oggetti che sembrano chiamare in causa i cristiani.
Anche la certezza della matrice cristiana del crittogramma del Pater Noster,
il famoso quadrato magico graffito nella Casa di Paquio Proculo
e su una colonna della Palestra Grande,
(formato da cinque parole di cinque lettere, leggibile in tutti i sensi,
le cui lettere, scomposte e ricomposte, formano due volte
l'espressione Pater Noster) è venuta meno a seguito
delle serrate critiche degli studiosi.

Nonostante quanto detto, presenze cristiane a Pompei
teoricamente non sono da escludere,
potendosi esse riconnettere direttamente all'esistenza di gruppi giudaici
nella valle del Sarno, i quali per primi furono in grado
di recepire il messaggio cristiano.






Le immagini e le notizie sono prese dal web
il copyright è dei rispettivi autori