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ALIMENTAZIONE

Nel Rinascimento il mangiare bene divenne una vera e propria arte.
I ricchi non badavano a spese e, pur di ostentare la loro magnificenza,
offrivano agli invitati le vivande più preziose arricchite da ingredienti costosi
come le spezie orientali (la noce moscata costava quanto mezza dozzina di buoi)
e lo zucchero (bruno perchè zucchero di canna) che arrivava a Venezia
avvolto in foglie di palma e che veniva usato anche per elaborate sculture,
come in occasione del matrimonio di Maria de Medici con il re di Francia Enrico IV

Nei banchetti ufficiali, come in occasione di matrimoni, le portate
erano talmente numerose che i commensali non potevano assaggiarle tutte.

In questo periodo nacque il galateo, cioè l’insieme delle regole di comportamento.
L’occasione in cui esso veniva rigorosamente rispettato era il banchetto
dove il principe mostrava tutta la sua ricchezza.
Egli sedeva con gli ospiti di maggiore riguardo a un tavolo posto su una pedana,
affinché tutti potessero ammirarlo (a volte anche un pubblico di sudditi).
Occupava un posto dominante rispetto agli altri, al centro, se la tavola
era a ferro di cavallo, a capotavola se rettangolare.

Le posaterie erano elegantissime e le tovaglie candide.
Il banchetto era interrotto frequentemente da danze, concerti e
brevi rappresentazioni in cui si cimentavano anche i familiari del signore.

Uno dei più armonici edifici del Rinascimento romano è la Farnesina, costruita
ai primi del Cinquecento, mirabile unione di architettura e decorazioni pittoriche.

Benché il monumento ricordi ora col suo nome i Farnese che ne furono
per un certo tempo proprietari, l'edificio è legato alla memoria
dell'illustre personaggio che lo fece edificare e gli diede splendida vita:
Agostino Chigi che i contemporanei chiamarono Magnifico
per lo splendore e la munificenza cui uniformò la sua vita.
In questa dimora, espressione viva dell'Umanesimo trionfante,
Agostino accoglieva artisti, poeti, principi, cardinali e lo stesso pontefice.

Qui si svolsero grandi conviti, spesso tanto fastosi da passare alla storia,
come quello del 30 aprile 1518 allestito nel vasto edificio delle scuderie.
Questo banchetto, al quale prese parte anche il  pontefice con quattordici cardinali,
fu tanto sontuoso, per la ricercatezza dei cibi, per le musiche e i canti,
per la bellezza dei drappi aurei e degli arazzi che decoravano le pareti,
che il pontefice rimproverò l'ospite per non avergli usato maggiore familiarità.
Ma il Magnifico signore, sorridendo, rispose di essersi
 permessa anche troppa confidenza invitando Sua Santità
a un banchetto imbandito nelle scuderie e, fatti togliere gli arazzi,
mostrò agli invitati stupiti le pareti nude e le greppie.
Né meno splendido fu l'altro banchetto imbandito nello stesso anno,
il 10 agosto, in una loggia sulla sponda del Tevere.
Le vivande erano servite in piatti d'oro e d'argento che dopo
venivano gettati nel fiume dove, tuttavia, il signore
aveva fatto collocare delle reti abilmente celate
sul fondo, che raccoglievano i preziosi piatti.
Ma il banchetto più famoso fu quello offerto il giorno di S. Agostino del 1519
nel grande salone della villa, il Salone delle Prospettive al primo piano, a cui
furono invitati oltre a numerosi personaggi, dodici cardinali e  papa Leone X.

Anche in questa occasione Agostino mostrò la sua magnificenza;
a tutti i commensali furono offerti rari uccelli e pesci dei loro paesi
in piatti di argento fregiati dei rispettivi stemmi.

Ma che cosa si mangiava in tali occasioni?
Il pasto consisteva di almeno 20 portate (antipasti, primi piatti, carne, pesce, ecc.)
ciascuna delle quali era costituita da almeno dieci portate.
Questo spiega perché un banchetto poteva durare anche l’intera giornata
e perché si usassero tre tovaglie messe una sull’altra:
quando una si sporcava, veniva tolta.
Eustachio Celebrino nella sua ’Opera nova che insegna apparechiar una mensa", dice:
“...firmerai la tavola et sopra uno mantile o voi dir tovaglia, poi sopra un’altra tovaglia stretta,
et sopra ditta tovaglia si mette un altro mantile.
Et questo si fa perché quando si ha fornito di magnar ... et si leva lo mantile
di sopra et dasse l’acqua alle mano, poi si sciugano in la toaglia stretta,
la qual poi che la è levata via, si dà li confetti sopra el mantile che resta...”;
Ormai la tovaglia era entrata nella vita quotidiana delle classi più agiate.
Bartolomeo Sacchi detto il Platina, letterato e umanista, sconsigliava
di utilizzare quelle colorate perché potevano infastidire i commensali.
Nei banchetti di questo periodo furono di moda le "perugine", delle tovaglie
con fasce blu lungo i lati,  presenti tradizionalmente nei corredi
nuziali e nelle liturgie, arricchite nel '500 da ricami e decorazioni.

In questo periodo erano già in uso i tovaglioli,
per ripiegare i quali esisteva una vera e propria arte,
ed era considerato sconveniente pulirsi sul vestito o sulla tovaglia.
Scrive ancora Eustachio Celebrino:
"Posto che haverai su la tavola gli ditti mantili un sopra l’altro,
si mette prima el sale, poi el pane, e poi li cortelli e pironi [forchette],
e sopra gli toaglioli, e uno bozolato, o vogliamo dir biscottello,
appresso il pane, e uno pignochato apresso el biscotto...”
Ciascun invitato, infatti, trovava al proprio posto (o posta, da cui il termine posata),
un tovagliolo ripiegato che ricopriva: le posate
(anche se molti si portavano  coltello e cucchiaio da casa), una pagnotta e i dolcetti
da inzuppare nell’aperitivo di malvasia.
E' da questo uso che deriva il termine “coperto”, diffusosi in Francia dal sec. XVI in poi.
Una volta scoperto il pane e tutto il resto, il tovagliolo veniva parzialmente aperto
e deposto accanto al piatto o appoggiato sulla spalla,
alla maniera degli scalchi e dei trincianti o addirittura
sulle due spalle e attorno al collo come una stola.
Dalle testimonianze iconografiche del tempo questi tovaglioli
erano in genere ripiegati in forma più o meno quadrata
anche se la salvietta da tavola era a quell’epoca di forma rettangolare.
Il piatto poteva essere prodotto nei materiali più vari,
dal vetro al legno, dal coccio al cristallo fino alla terracotta,
materiale estremamente comune; sulle mense più ricche potevano esserci
anche piatti d’oro o d’argento incastonati di pietre preziose.
Nel corso del Rinascimento s’impose il gusto per il piatto in maiolica,
in peltro, in oro e in argento, non solamente in qualità di oggetto funzionale
ma anche come pretesto per finalità decorative.
Con l’affermarsi delle regole dell’etichetta nacque in
quest’epoca un nuovo concetto di rispetto fra i commensali
e da questo momento il piatto diventò individuale.

Nel Cinquecento si affacciò l’idea che il commensale di buone maniere
dovesse prendere un certo distacco dal cibo,
per cui la posata assunse una funzione nuova e rilevante,
sancendo la fine dell’usanza di afferrare il cibo con le mani.
Accanto al coltello (che perse la punta, non servendo più per
infilzare il cibo) e al cucchiaio, cominciò ad apparire anche la forchetta,
fino ad allora relegata prevalentemente in cucina.
Il suo nome è il diminutivo di forca e indica un oggetto
formato da un manico e due o più rebbi.
E’ una posata che troviamo non solo sulle tavole dei nobili
ma anche alla mensa dei borghesi.
In una novella di Franco Sacchetti si narra, infatti, di due borghesi:
Noddo e Giovanni Cascio che se ne servivano per disputarsi i maccheroni
serviti bollenti e fumanti dal tagliere che usavano in comune.
Questa forchetta aveva due soli rebbi e un esile gambo e veniva usata
per portare alla bocca ogni cibo caldo e umido, come nel caso dei maccheroni
che difficilmente si potrebbero afferrare con le dita.

Dalle corti italiane la forchetta si diffuse lentamente in Europa,
dove ancora nel Seicento gli aristocratici mostravano resistenze ad abbandonare
l'uso delle dita (regali posate), come testimoniano le tradizioni della corte di Luigi XIV.
A conferma di questa riluttanza verso la forchetta, segnaliamo una cronaca
che vedrebbe protagonista Caterina de' Medici.
Sembrerebbe che quando la regina fece provare la posata a punte al marito Enrico II
e ai commensali, questi si rivelarono piuttosto maldestri nel maneggiarla:
"Nel portare la forchetta alla bocca, si protendevano sul piatto con il collo
e con il corpo. Era uno vero spasso vederli mangiare, perché coloro
che non erano abili come gli altri, facevano cadere sul piatto, sulla tavola e a terra,
tanto quanto riuscivano a mettere in bocca".

Ma vediamo come si svolgeva un banchetto nel Rinascimento:
dopo che i convitati si erano lavate le mani con acque di rose in coppe d'argento,
venivano portati in tavola pane di latte, ciambelle, biscotti, marzapani, pinocchiate,
insalata, cannelloni alla crema, sfogliate, acciughe, capperi, asparagi,
gamberi, latte di storione allo zucchero e vini.
Frutta e agrumi furono considerati elementi aromatizzanti basilari
e la frutta in genere acquistò una posizione preminente fra le pietanze
in apertura del pasto spesso rivestita di foglie d’oro.

Fra i primi piatti  erano frequenti i maccheroni (che tuttavia non erano
quelli che intendiamo noi, bensì una sorta di gnocchi fatti con farina e pane)
e poi lasagne, tagliolini, ma anche cose più semplici come  minestre di riso.
I maccheroni non erano di certo conditi con il pomodoro che, pur essendo già arrivato
dalle Americhe, sarà utilizzato come salsa per condire la pasta solo nel 19° secolo,
nè con “aglio, olio e peperoncino “ in quanto aglio e cipolla erano cibi adatti solo per i contadini.
Un condimento tipico per i maccheroni precedentemente cotti in brodo, era:
"butirro, cannella, zuccaro et formaggio".
Maccheroni e vermicelli venivano anche conditi con uvette oppure con burro e sale
e per le prime paste ripiene, antenate dei tortellini si utilizzava lo sciroppo di zucchero,
un cucchiaino di cannella, del ripieno di noci e pistacchi tritati”.
Ma già il nobile Cristoforo Messisburgo, celebre siniscalco e cuoco rinascimentale,
utilizzava "sopra maccheroni",  "una salsa a base di aglio, pane raffermo,
brodo, noci e mandorle tritate, in poche parole "l'agliata".

Fra i secondi  piatti oltre a frittate, lumache, funghi, carni e pesci vari, possiamo trovare
"una bona torta fatta di figadetti di polli".
In questo periodo, infatti, si sviluppò una vera e propria passione per le frattaglie
e le interiora degli animali da macello, dei volatili e dei pesci.
Vi fu, inoltre, una grande scelta di umidi e guazzetti e un ampio utilizzo del latte
e dei suoi derivati: il burro acquistò una importanza pari allo strutto,
era molto apprezzata la panna e vennero introdotti formaggi di ogni tipo.
Le carni erano costituite da carni di vitello, di suino, pollame, capretti e castrati,
arrosti di maiale con zucca in agro-dolce, funghi porcini alle pere selvatiche
(secondo la convinzione che le pere selvatiche sono un antidoto
per l’eventuale veleno dei funghi sospetti).
Gli arrosti, venivano precedentemente bolliti in acqua per ammorbidirli
perchè si utilizzavano ancora, come nel medioevo, animali vecchi e non più abili
 al lavoro, (ma si cominciarono anche ad allevare buoi appositamente per la tavola).
Particolarmente apprezzate le teste di vitello, manzo e capretto,
delle quali veniva utilizzato proprio tutto: lingua, muso, cervello, guance,
orecchie, palato e perfino gli occhi, ma anche le teste di grossi pesci
che erano apprezzate al punto di diventare regali di prestigio,
come la testa di ombrina che fu regalata a Imperia, famosa cortigiana romana.
Fu in questo periodo che si cominciò ad allevare il tacchino importato dalle Americhe,
che in breve sostituì sulle tavole dei nobili, aironi, pavoni, cigni e gru
e fu considerato un preziosissimo regalo di matrimonio.
Il Siniscalco che aveva al seguito uno stuolo di aiutanti,
utilizzava fino a 25 tipi diversi di coltelli e forchette.
Tagliava la carne in pezzi non più grandi di un dito
e spesso addirittura la triturava, perché la carne era dura
e la maggior parte dei convitati aveva i denti in pessime condizioni.

Molto originale era il modo di presentare la selvaggina che veniva portata
in tavola dentro dei trofei di pasta sfoglia dai quali, una volta scoperchiati,
saltavano fuori animali vivi come fagiani, lepri, caprioli che correvano
e volavano da una parte all’altra fra il divertimento di tutti e che poi,
scuoiati e cucinati potevano essere rivestiti della loro stessa pelle
e serviti in tavola come se fossero ancora vivi.

Molta importanza veniva data ai dolci che erano delle vere e proprie opere d’arte,
il cui progetto veniva affidato ai più rinomati artisti dell’epoca.
Dopo il pasto, infatti, c'erano dolci e confetture, poi anche vino speziato
o spezie da sole, che si pensava facessero bene alla digestione.
Si dice che fu in questo periodo che fu inventato lo zabaione e che ad inventarlo
sia stato Bartolomeo Scappi (1500-1570), cuoco segreto di papa Paolo III,
che fu  dai contemporanei  ritenuto responsabile della eccessiva durata
del conclave del 1549 che portò all'elezione, dopo la morte di Paolo III, di Giulio III.
Si dice infatti che i cardinali avessero perso molto tempo ad eleggere il nuovo papa,
a causa dell'eccessiva bontà dei cibi serviti

Le cucine dei ricchi dovevano essere in grado di fornire cibi
e bevande a circa 600 persone.
Tale capacità produttiva non era comunque sufficiente per il seguito
di Enrico VIII, che ammontava a 1200 persone.
Le cucine erano divise in 15 reparti separati, tra cui la Spezieria per le spezie,
la Pasticceria per i dolciumi, il reparto dei Pastai per la preparazione di pastafrolla ecc.
Ogni reparto aveva a disposizione dei locali attorno ai vari cortili della cucina.
Purtroppo spesso le cucine si trovavano a grande distanza dal luogo del convito,
per cui il trasporto dalla cucina alla sala da pranzo  aveva tempi di attesa
talmente lunghi che le vivande arrivavano fredde nei piatti degli ospiti,
perdendo così parte del loro sapore.

Molto di moda nel Rinascimento fu il banchetto a tema, ispirato alla mitologia greca e latina.
In occasione delle nozze tra Alfonso II d'Este e Barbara d'Austria a Ferrara ,
si preparò un sontuosissimo pranzo dedicata a Nettuno: lo scenario era un fondale marino,
le tovaglie riproducevano il movimento delle onde, i piatti erano a forma di conchiglia
e i tovaglioli piegati a forma di pesce.
Le portate furono più di un centinaio e richiamavano per forma o decorazioni il tema della festa.
Chiuse lo spettacolare pranzo, un gigantesco ”Trionfo di Nettuno" composto
da novanta statue di zucchero e marzapane (già utilizzato dagli antichi romani)
che rappresentavano, accanto al dio, un vasto corteo di pesci e animali marini..
Nello stesso periodo, a Firenze, Giovan Francesco Rustici fondava la Compagnia del Paiolo
il cui scopo era quello di imbandire la tavola con piatti tanto particolari da stupire i commensali.
Il Vasari racconta:
“Alla prima cena il Rustici accomodò un enorme tino in una stanza
come se fosse un enorme paiolo con all’interno una tavola imbandita.
Quando i commensali si accomodarono. la tavola si aprì e comparve un albero
con molti rami ai quali erano appesi i piatti con le pietanze per ciascuno invitato.
L'albero spariva quando le prime vivande eran finite e ricompariva via via con altre.
Attorno al paiuolo vi eran i commensali e i serventi, che mescevano preziosissimi vini".
Anche Leonardo da Vinci fu un grande allestitore di banchetti.
Le varie corti che l'ospitarono, non gli fecero solo realizzare grandi opere,
ma ne sfruttarono le conoscenze per creare quei macchinari che offrivano
giochi scenici nei sontuosi banchetti.
Grazie agli scritti lasciati nel Codice Atlantico possiamo desumere
che Leonardo conosceva e sperimentava erbe e spezie, tra queste: curcuma,
aloe, zafferano, fiori di papavero, fiordalisi, ginestre,
olio di semenza di senape e olio di lino.
Il Genio negli ultimi anni della sua vita firmò pure un’inedita bevanda: “l'Acquarosa di Leonardo'”.
fatta con acquarosa, zucchero, limone filtrati in “tela bianca).
La bevanda, riscoperta e presentata per la prima volta dal Museo Ideale Leonardo Da Vinci di Vinci,
doveva essere servita fresca, ed era definita da Leonardo adatta all’estate calda dei Turchi.

Il cibo dei poveri

L’alimentazione nel Rinascimento è legata al ceto d’appartenenza.
Vi erano, infatti, dei cibi non accessibili a tutti e, pertanto, appannaggio
solo dei ceti medi e medio alti.
Rispetto alle ricchissime tavole rinascimentali, per i poveri
la situazione alimentare era piuttosto diversa
I poveri vivevano letteralmente dei “frutti della terra”.
Al loro desco: grano, orzo, segale, avena, miglio…
Solo i ricchi potevano avere i propri piatti e bicchieri.
Le classi inferiori di solito condividevano i piatti in coppie.
Le persone usavano come  piatto dei "pezzi" di pane azzimo (non lievitato)
Alle volte ciò che rimaneva di questi "piatti" veniva dato ai poveri
o ai cani ma più spesso veniva mangiato dallo stesso commensale.
Più tardi questi "taglieri" di pane vennero sostituiti da pezzi di legno
in forma quadrata con una depressione circolare nel mezzo.
La maggior parte del cibo veniva mangiata con le dita,
sebbene alcuni usassero anche i loro coltelli.
Il cibo era preso dal piatto di portata, messo sul pane e poi mangiato.

I cereali raccolti venivano cotti a lungo nei paioli di rame
in una specie di polenta grigiastra e quasi priva di sapori;
le spezie infatti, come d’altra parte anche lo zucchero,
erano carissimi e il sale un bene prezioso e molto caro.
Il povero poteva aggiungere solo qualche erba aromatica spontanea
come la salvia, il timo alle zuppe di legumi: ceci, fave e castagne
d’inverno, insieme a latte e cacio, lardo e qualche volta uova.
Difficilmente un povero si poteva permettere un pesce o un pezzo di lepre
in quanto non poteva cacciare o pescare nei possedimenti
del signore senza il suo consenso.
L'alimento principale del desco contadino era il pane:
scuro, ricco di fibre, impastato con farine diverse.
Il pane dei poveri era quasi sempre raffermo perché veniva preparato
solo poche volte al mese ed era simile a focacce azzime;
era confezionato con cereali poveri, con fave, con ghiande, con crusca
e nei periodi di gravissima carestia anche con la segatura !
In anni di magra era vietato utilizzare la farina per fare la pasta
perché destinata alla panificazione.
Per i poveri il pasto tipo consisteva in pane nero, brodo,
forse formaggio e una scodella di latte cagliato.
I contadini mangiavano soprattutto polente, zuppe, focacce, pane di legumi e di segale.
Molto diffusi anche i legumi secchi e le castagne, mentre la frutta
non era considerata parte integrante dell’alimentazione, ma piuttosto una golosità.
Ovviamente, vi era un gran consumo di ortaggi, come cavoli
e rape coltivabili ovunque e reperibili per un lungo arco di mesi.
La carne e i prodotti caseari conobbero un aumento di consumi,
come conseguenza della diffusione dell’allevamento bovino e ovino;
il primo, favorito a partire dal Quattrocento, dall’introduzione di nuove razze
e dall’applicazione di nuovi sistemi di irrigazione dei prati,
il secondo legato allo sviluppo delle manifatture laniere.
Mantenere mandrie di animali era molto più facile e meno costoso
rispetto ai lavori di coltivazione per cui, spesso, i contadini
convertivano le coltivazioni in terreno da pascolo.

ALCUNE RICETTE DEL RINASCIMENTO

 

 





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