SECONDA TESTIMONIANZA

Sono Cecilia e ho 10 anni.
Quando arrivarono gli Arabi, nell’ 827, non facevo altro che nascondermi
perché erano tutti neri e mi facevano paura.
Un giorno, però, mentre ero seduta sulla scalinata di una chiesa,
un vecchio Arabo mi si avvicinò.
Io terrorizzata scappai ma lui mi tranquillizzò e mi chiese come mi chiamassi.
Io gli risposi e gli feci la stessa domanda.
Lui disse che si chiamava Asif e mi porse una cosa arancione tonda
che non avevo mai visto e mi disse che era un’arancia.
Mi disse di assaggiarla ed io dovetti ammettere che era buonissima.
Fu così che io e Asif facemmo amicizia.
Lui iniziò a raccontarmi della sua terra sabbiosa, arida e rocciosa,
delle poche oasi dove lui, cammelliere, con il suo cammello, da giovane si era riposato.
Mi raccontò che un giorno era riuscito ad assalire una carovana
e a derubarla di tutto.
Io lo interruppi chiedendogli cos’era un cammello e lui fischiò e
da dietro un angolo vidi spuntare un cavallo,
ma più grande, tutto peloso, con 2 gobbe, di colore giallo.
Asif mi guardò e mi disse: «Questo è il mio cammello; l’ho chiamato Amir».
Io lo trovai simpatico e mentre Amir mi dava una bella leccata alla mano,
Asif ricominciò il suo racconto.
Mi raccontò di quando era arrivato nell’oasi principale dell’Arabia,
La Mecca e mi disse che era entrato nella moschea,
e allora lo interruppi di nuovo e gli chiesi cos’era una moschea.
Lui scosse la testa e mi rispose:«Si vede che siamo diversi;
io non conosco le tradizioni tue e tu non conosci le mie.
La Moschea è la nostra chiesa, solo che ci si siede sui tappeti
e si prega Allah, il nostro unico Dio».
Mi disse anche che era vietato ritrarre volti umani e quindi nelle moschee
c’ erano solo disegni geometrici.
Senza accorgermene si era già fatto tardi
ma la curiosità era tale che rimasi lì.
Lui continuò il suo racconto dicendo che si pregava
5 volte al giorno rivolti verso La Mecca;
mi disse anche che se qualcuno si scordava di pregare,
il muezzin, dal minareto glielo ricordava.



Poi disse che in effetti lui si chiamava Asif Mohamed<
perché tutti i maschi avevano per secondo nome Mohamed,
cioè Maometto, il profeta.
Adesso era veramente tardi e a malincuore lo salutai
con la promessa di rivederci l’indomani.
Tornando a casa decisi di non dire nulla ai miei
per la paura che mi impedissero di rivederlo.
L’ indomani uscì di casa, ritornai nei gradini della chiesa
e come promesso,dopo qualche minuto, arrivò Amir
seguito da Asif che si sedette accanto a me e mi diede un’altra arancia.
Dopo, con un sorriso, continuò il suo racconto.
Mi disse che non si potevano avere più di 4 mogli e io rimasi sbalordita
e gli dissi che noi, già averne 2 era un peccato.
Lui sorrise e continuò e, a mano a mano che parlava,
io rimanevo sempre più sbalordita.
Ogni giorno mi dava un’ arancia e mi faceva assaggiare sempre
qualcosa di nuovo: limoni, carciofi, albicocche, ecc….
Un giorno mi fece conoscere la sue nipotina; si chiamava Nasrula
e presto facemmo amicizia.
Lei portava i suoi giocattoli e io i miei, ce li scambiavamo
e ci divertivamo un mondo.
Lei mi disse che nelle Moschee le femmine non potevano entrare
e che quindi lei non aveva mai visto l’ interno di una Moschea;
mi raccontò anche, che accanto ai Minareti c’erano i Suk e i Bazar
che sono una specie di mercati dove si trova di tutto.
Un giorno però mia madre mi seguì e si accorse che parlavo,
giocavo con gli ”Arabi” cosi si avvicinò a me.
Io la stavo per pregare di non portarmi via ma lei mi accarezzò
e mi sorrise e mi disse:
Gli Arabi ci hanno migliorato la vita, continua a giocare con loro!»
Io scoppiai a piangere dalla felicità.
E così da quel giorno, per tutta la vita ci incontrammo.
Io rispettavo le loro abitudini e loro le mie.
Francesca Catarinicchia







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