Privacy Policy PICCOLI SCHIAVI  di Ellen e Rhod




Tema di questo brano è l’atroce condizione di vita
dei bambini lavoratori inglesi
durante la prima fase della Rivoluzione Industriale.
Il lungo racconto è la ricostruzione romanzata
di una realtà precisa, documentata dalle inchieste parlamentari dell’epoca
che denunciavano i drammi della fabbrica e delle nascenti città industriali.

PICCOLI SCHIAVI
di Ellen e Rhoda Power



Era una fredda serata d’autunno dell’anno 1800.
Pioveva e il vento arrivava a gran raffiche dall’angolo della strada.
Jim Brown, seduto sul marciapiede vicino ai cancelli della fabbrica,
era continuamente scosso da brividi.
Aveva fame e freddo, e avrebbe tanto desiderato che la madre
lo portasse a casa subito.
«Dobbiamo davvero aspettare Anna e Jenny?», chiese.
«Sta diventando così buio», aggiunse, cominciando a piangere.
«Non impiegheranno tanto ora, figlio mio», disse la madre che,
continuando a parlare con un gruppo di donne,
si era seduta sul marciapiede e si era presa il bambinetto sulle ginocchia.
«È destinato anche lui alla fabbrica?», chiese una donna,
coprendosi la testa con lo scialle per cercare di ripararsi dal vento.
E piccolo, lo so, ma anche la signora Harford ha una bambina di quattro anni là,
che striscia sotto le macchine e raccoglie gli avanzi.
Dicono che più piccoli sono, meglio è per quel lavoro.
Quanti anni ha il tuo bambino? Cinque?».
« Sei», disse la madre di Jim. «Ma non cresce;
le paghe sono così basse che non riesco a dargli da mangiare a sufficienza.
Devo risparmiare tutto quello che posso per Anna e Jenny.
Loro si guadagnano il pane e hanno diritto di mangiarselo.
Ma non sono molto più grandi di Jim, infatti Anna ha sette anni e Jenny otto.
Devono stare ore e ore in piedi senza aver mangiato abbastanza.
Un tempo Jenny era paffuta e graziosa, ma ora non la prenderesti per la stessa bambina.
È cresciuta con le gambe storte e l’anno scorso ci ha rimesso un dito nella macchina.
È rimasta a casa cinque settimane e io ho fatto una fatica atroce
per sbarcare il lunario. Conosci Dolly, la mia maggiore?
Ha dodici anni e lavora da Doe con il padre.
Dovrebbe guadagnare cinque scellini la settimana ora, perché è molto brava;
ma la pagano in parte con buoni da usare nella bottega,
e il cibo là è costoso e poco nutriente.
Se continua così, non so davvero dove andremo a finire”.
L’altra donna, che tremava dal freddo, si scostò i capelli dagli occhi.
uardò Jim, che si era addormentato. «Tienilo fuori, se puoi», disse.
«La mia bambina ha sei anni e mi si spezza il cuore a svegliarla di mattino presto.
Devo scuoterla, altrimenti si addormenta mentre la vesto.
E già abbastanza penoso farlo durante i periodo di poco lavoro,
quando non si deve presentare prima delle sei, e può venir via
alle otto e mezzo la sera.
Ma se c’è molto lavoro, è davvero più di quanto un essere umano possa sopportare.
La sera, quando finisce, è troppo stanca anche solo per parlare.
E, dato che viviamo ad un miglio dalla fabbrica, non riesco a farla arrivare a casa
se non quasi alle undici.
Talvolta si addormenta quando l’imbocco, ed è comunque troppo poco
quello che riesce a mandar giù».
Mentre parlava, le scendevano a fiotti le lacrime,
che cercava di asciugarsi con lo scialle.
«Ti dico che viviamo con la morte dei nostri bambini al fianco».
«Si, è disumano», disse un’altra donna.
«Il mio uomo guadagna otto scellini la settimana ed io ho due piccoli a casa
e quattro in fabbrica. Il più grande ha dieci anni.
Quando c’è molto lavoro, io non vado nemmeno a letto e sveglio loro alle tre,
in modo che possano dormire quattro ore piene.
Ma ieri erano in ritardo di cinque minuti e il sorvegliante
li ha aspettati alla porta con una frusta in mano e li ha picchiati
mentre salivano le scale, e poi ha trattenuto a tutti un quarto di paga».
La madre di Jim si spostò il bambino addormentato sull’altro braccio.
«La mia Anna lavora in ore in cui dovrebbe dormire», disse
«È terrorizzata all’idea di venire frustrata se si ferma.
È arrivata a casa piena di lividi la settimana scorsa, ma,
per paura di perdere il posto, non ha voluto che mi lamentassi.
Jim ha detto che le frustate che le hanno dato non erano nulla
in paragone di quelle che normalmente ricevono.
Infatti, ha aggiunto che, verso sera, quando cominciano a sentirsi stanchi,
quasi tutti vengono percossi con delle cinghie.
Ho sentito dire che il sorvegliante è pagato secondo l’ammontare del lavoro svolto,
così che, se riesce a spremere di più dai bambini con delle frustate,
lo fa ben volentieri. Beh, deve vivere anche lui, suppongo».
La sua voce suonava desolata e senza speranza.
«Li stanno spremendo anche ora fino all’ultima goccia», disse la sua vicina.
«Sento parecchi piangere».
La madre di Jim si alzò e appoggiò il bambinetto al muro.
«Dovrà andare a casa con le sue gambe», disse.
«Io devo prendere Anna sulle spalle. Sono così in ritardo, stasera,
e lei sarà troppo stanca anche solo per muoversi.
Schiavi, ecco cosa sono. La gente parla di liberare i neri in Giamaica.
Che guardi più vicino a casa sua, dico io.
Vedi quella baracca in rovina? È là che vengono alloggiati
i piccoli apprendisti dopo il lavoro.
Ce ne sono ventidue nuovi, di cui uno non molto sveglio.
Li trattano peggio di maiali come vitto e alloggio…
E i letti sono in uno stato pietoso, te lo posso ben dire.
Quando esce un gruppo di bambini, ne entra subito un altro.
Sveglia, Jim. Su! Eccoli».
Mentre stava ancora parlando, i cancelli della fabbrica si aprirono,
facendo uscire una fiumana di uomini, donne e bambini.
Avevano un aspetto pietoso, con corpi deformati e visi cadaverici.
Gli uomini e le donne almeno parlavano mentre attraversavano i cancelli,
ma i bambini non dicevano nemmeno una parola.
Si guardavano intorno con ansia sperando di intravedere i genitori
oppure si incamminavano verso casa incespicando continuamente.
Nella luce fioca, tra la pioggia sferzante, sembravano
una moltitudine di spiritelli lugubri.
Erano bambine e bambini con visi scavati, schiene ricurve,
gambe storte e braccine esili.
Quasi nessuno era di proporzioni o statura normali,
e i loro volti, già invecchiati, tradivano un’acuta disperazione.
Due piccolini con i piedi storti avanzarono zoppicando mano nella mano,
si guardarono intorno in cerca della madre e, non trovandola,
si diressero barcollando verso un fosso, dove, senza dire una sola parola,
si lasciarono cadere.
«Ecco la mia Jenny!» disse la signora Brown,
mentre una ragazzina vestita di un leggero abito di cotone con uno scialle,
inciampava giù per i gradini.
Aveva una manica strappata e, sul braccio nudo, mostrava un nuovo livido,
che cominciava già a diventare nero.
Jenny era in compagnia di tre bambini; tutti piangevano, nessuno di loro parlava.
Le lacrime scorrevano a fiotti lungo le loro guance, silenziosamente
e senza che nessuno ci facesse caso.
Non piangere Jenny» disse la signora Brown.
«Non piangere, mia cara. È tutto finito per oggi.
Jim ti aiuterà ad andare a casa».
Si guardò attorno con ansia, in cerca dell’altra figlia, Anna,
finché la vide seduta sull’ultimo gradino, come inebetita.
Appariva incurante della folla che la urtava, e non aveva
nemmeno il fiato per lamentarsi quando qualcuno le pestava la mano.
Su, alzati, Anna!», disse la madre mettendosi l’esangue creaturina sulle spalle.
«Ecco una bambina grande di sette anni portata in spalla fino a casa.
Hop, hop, come giocare ai cavalli, eh Anna?»
Non ci fu nessuna risposta, perché Anna era già addormentata,
la testolina contro le spalle della madre, l’indice e il pollice di ogni mano
che incessantemente si contraevano come se stessero unendo fili rotti.
La signora Brown camminava a gran passi.
La bambina non era di nessun peso. Non fermarti nemmeno un attimo, Jim»
disse, «o Jenny cadrà addormentata per strada».
E Jim, di sei anni con la pioggia che gli colava sul collo
e sulle gambine nude blu dal freddo,
ora tirava ora spingeva la sorella verso casa.
Dovettero camminare per un quarto di miglio, e quando finalmente
raggiunsero la misera stanza dove vivevano, erano quasi le dieci.
Una candela in una bottiglia bruciava con un debole tremolio,
gettando una luce giallognola sul viso di un minuscolo bambino
che giaceva in una cassa da frutta.
L’unica sedia della stanza era occupata da un uomo,
addormentato con la testa sul tavolo.
C’era un letto con un cuscino e per terra un vecchio materasso e
una coperta da cavalli.
Una bambina di dodici anni, troppo piccola per la sua età,
stava cercando di far bollire una pentola su un misero fuocherello.
Ogni tanto si piegava a soffiare sulla fiamma.
Quando la signora Brown ed i bambini entrarono, l’uomo si svegliò
e la bambina si voltò. «Sono venuti presto oggi», disse la donna,
mettendo Anna sul letto e cominciando a togliere a Jenny lo scialle fradicio.
«Che cosa hai combinato, Dolly? Tuo padre ha un aspetto arrabbiato».
«Ho perduto il lavoro» disse Dolly con indifferenza,
e si piegò a soffiare sul fuoco.
«Sentitela» sbraitò il padre. «Perduto il lavoro, dice lei
come se i soldi si trovassero per strada!
E non è stato nemmeno perché non l’avevo avvertita.
L’ho detto e ripetuto. Fa’ come ti dicono sul lavoro, come tutti gli altri.
Ma la signorina deve aver bisogno di impiegare molto tempo per il pasto
e rientrare così in ritardo».
Avevo tanta fame e mi faceva male la testa», disse Dolly,
«e poi, quando il campanello del pasto è suonato e ci si è fermati,
il sorvegliante ha fatto asciugare le macchine a me ed ad alcuni altri.
Quando ho finito, avevo della lanugine in gola e ho tossito e tossito
finché mi sono rimasti solo tre minuti per mangiare.
Avevo appena inghiottito quattro bocconi che gli altri sono rientrati al lavoro».
E cominciò a piangere.«E quei quattro bocconi ti sono costati quattro scellini»
disse il padre. «Magra soddisfazione quando si pensi che anche la mia paga
verrà dimezzata; e se io e i miei amici cercheremo di opporci,
finiremo anche in carcere per essercene dati pena.
Bene, dovremo farci aiutare da Jim adesso.
È abbastanza grande per cominciare».
La signora Brown d’un colpo alzò lo sguardo.
Era seduta sul letto ad imboccare Anna con pezzetti di pane e formaggio,
scuotendola leggermente quando si addormentava.
«Hai intenzione di mandarlo in fabbrica?» chiese. «Non è forte abbastanza.
Lo rovineranno in un mese. Ti dico che è pura crudeltà».
«Crudeltà, eh?», disse il marito. «Non è peggio se tutti noi patiamo la fame?
Puoi ringraziare che abbiamo le fabbriche qui.
Se vivessimoa Durham, i bambini scenderebbero nelle miniere.
Guarda tuo fratello. Le sue due bambine hanno solo nove e dieci anni
e il bambino otto. Quel bambino è in trappola.
Sta al buio tutto il giorno e metà della notte, ad aprire e chiudere
le porte di ventilazione delle miniere; e lui è ben felice di farlo,
te lo dico io, per cinque penny la settimana.
E le bambine, strisciano qua e là tutte e quattro, nude fino alla cintola
con una catena intorno ai fianchi, per trascinare carrelli di carbone,
spessissimo anche in mezzo all’acqua.
C’è la luce del giorno nelle fabbriche».
«Non lascerò che Jim sia mandato là. È troppo piccolo», replicò la madre.
«È grande abbastanza da avere un buon appetito però», ribatté il padre.
«A ogni buon conto, non lo manderò in fabbrica. Ho avuto una buona offerta per lui.
Il maestro spazzacamino…».
«Che? Vuoi che diventi uno spazzacamino?».
«Dobbiamo pensare agli altri bambini e non possiamo permetterci il lusso<
di andare contro il nostro interesse. Ricaverò quattro sterline da lui.
Imparerà un mestiere e ci sarà una bocca in meno da sfamare.
Ti ho già detto che la mia paga verrà ridotta.
O Jim va là, o le bambine patiranno la fame.
Va’ a letto. La cosa è già fissata».
«I magistrati non lo permetteranno. Il bambino ha solo sei anni»
disse la signora Brown con veemenza.
«Se io dico che ha otto anni, sarà registrato così sui documenti,
e verrà accettato. Vogliono bambini piccoli per le cappe dei camini stretti.
Alcune misurano solo otto o nove pollici (pollice= 2,5 cm cioè 20 - 22,5 cm) quadrati.
I bambini di otto anni ci restano bloccati,
Jim andrà su come un uccello.
Non preoccuparti, il bambino sarà portato in case grandi
dove gli daranno del buon cibo. Gli avanzi delle cucine dei ricchi
sfamerebbero un’intera famiglia.
Il bambino patirebbe la fame qui. Pensa a quelle quattro sterline».
Si diresse verso il letto e vi si buttò sopra; ma i suoi occhi evitarono Jim,
che stava dormendo sul materasso ai piedi di Jenny.
Il mattino dopo il padre perse mezza giornata di lavoro per impiegare il bambino
come apprendista dal maestro spazzacamino,
che, giunto a casa loro, esaminò Jim dalla testa ai piedi.
«Ho davvero bisogno di un ragazzetto piccolo» disse.
«Il mio piccolo è diventato troppo grosso per i camini stretti. <
È rimasto bloccato in una cappa e ha continuato ad urlare
fino a rompere i timpani delle orecchie.
Abbiamo dovuto buttar giù una parte della cappa per tirarlo fuori.
La camicia gli si era raggomitolata e lui non riusciva a muoversi.
Mando su i ragazzi nudi adesso. Quando si arriva a demolire camini,
si perdono i clienti. Questo bambino è così sottile, non darà nessun problema;
vero, ometto? Su, vieni adesso, e bada bene di dire al magistrato
che hai otto anni, e che vuoi fare lo spazzacamino. Capito?».
E Jim, che non aveva capito minimamente, rispose: «Sì, signore», <
e seguì lui e il padre in strada.
Il magistrato, che poi firmò i documenti che vincolavano il bambino,
fu sorpreso quando gli dissero che aveva otto anni, ma non indagò per niente.
Il maestro promise di dare a Jim un berretto di cuoio
con un numero in ottone, in modo che non venisse assunto da nessun altro maestro,
di controllare che il bambino si lavasse una volta alla settimana,
di mandarlo in chiesa la domenica.
«Prego notare l’ultima clausola» disse il magistrato, e il maestro lesse a voce alta:
«Prometto che in ogni circostanza tratterò il detto apprendista
con tanta umanità e attenzione quanto la natura del lavoro di spazzacamino ammette».
Firmò e Jim, che continuava a guardare fisso fuori dalla finestra,
non udì queste parole né si rese conto di quanto arbitrariamente
potevano essere interpretate.
Una volta in strada, il maestro fece scivolare quattro sterline in mano a Brown,
e questi, dando un colpetto sulla testa di Jim
e raccomandandogli di fare il bravo, si affrettò
in direzione della fabbrica di Doe.
Jim si stava ancora chiedendo che cosa stesse accadendo,
seguì il suo nuovo maestro all’altro capo della città.
Raggiunta una casetta di mattoni e fatto un buon pasto,
Jim ottenne il permesso di giocare per conto suo
fino all’arrivo degli altri apprendisti.
Li udì trotterellare giù per i gradini dello scantinato,
poi vide comparire il maestro a dirgli che era ora di andare a letto.
«Vieni nello scantinato», disse, reggendo una candela.
«Ted, Dick, Harry! Venite fuori, mascalzoncelli, e prendetevi cura di Jim».
Tre bambinetti neri come la pece si alzarono e fecero un gran sorriso.
Uno di loro tirò Jim su un sacco di fuliggine
e gli diede una caramella alla menta molto sporca.
«Me l’ha data il cuoco di una casa», disse. «Puoi prendertela se ti piace.
C’è anche scritto su qualcosa». Jim se la mise in bocca e la trovò calda e piacevole.
Il maestro, vedendo che facevano amicizia, diede a ciascuno una mela
e se ne andò, lasciandoli al buio.
Dapprima Jim non riuscì a vedere nulla, ma, dopo un po',
si abituò all’oscurità e poté distinguere le forme dei suoi compagni,
parecchi sacchi di fuliggine e un mucchio di carbone.
«Penso che ti abbia preso per i camini stretti», disse Ted,
e cominciò a palpare i gomiti e le ginocchia di Jim.
«Oh, sei un deboluccio!», disse, facendo un fischio.
«Sei fortunato che ti ha preso Smith, e non gli altri maestri.
I ragazzi di quello vicino erano proprio mollicci come te,
e quando si sbucciavano la pelle, il loro maestro gliela induriva
con acqua salata bollente, e se loro urlavano che non volevano salire oltre,
gli accendeva della paglia sotto i piedi».
Jim fu scosso da brividi di spavento. «Sta’ zitto, Ted!», disse Harry.
«Lo spaventi. Smith non fa di queste cose» disse a Jim.
«E gentile fintanto che noi andiamo». «Ma sa come usare il bastone»,
aggiunse Dick. «Quando io sono rimasto bloccato ed hanno dovuto tirar giù
dei mattoni per farmi uscire, sono stato picchiato senza tanti complimenti».
«Beh, ti ha dato mezzo penny, dopo», disse Harry.
«I servi brontolarono tanto per tutto quel pasticcio,
che Smith temeva di perdere il cliente, se non avesse fatto qualcosa.
Se tu avessi tenuto le mani sopra la testa, non saresti rimasto bloccato.
Con il maestro della porta accanto te la saresti vista peggio!».
Parlarono ancora un po’, poi si addormentarono.
Quando Jim si svegliò il mattino dopo di buon’ora, era nero
come gli altri bambini, perché si era coricato su un sacco di fuliggine.
Smith, come Ted aveva fatto notare, era gentile a paragone degli altri maestri,
ma certamente non mantenne le promesse che aveva fatto al magistrato.
Infatti, benché ci fosse una legge che lo obbligava a firmare i documenti,
non c’era poi nessuno che controllava se manteneva la parola.
E lui non mise nessun numero sul berretto di Jim, non lo fece mai lavare
e non gli diede nemmeno dell’acqua allo scopo, né lo mandò mai in chiesa.
La prima cosa che fece fu di mandarlo in giro per tutta la città,
a gridare: «Spazzacamino, spazzacamino, chi ha bisogno di uno spazzacamino?»,
e a distribuire biglietti con la scritta: «Piccoli spazzacamini per piccoli camini!».
Per parecchi giorni Jim continuò così, poi fu portato in una casa grande
per pulire il suo primo camino.
Smith stava in piedi vicino la mensola del caminetto, mentre Ted si arrampicava
per mostrare a Jim come fare.
Poi Jim, con la camicia avvolta stretta intorno alla cintola e fissata con uno spillo,
fu spinto su con l’ordine di arrampicarsi.
Si arrampicò per pochi passi, poi scivolò e cominciò a piangere.
Aveva paura del buio, e le ginocchia e i gomiti gli sanguinavano.
Questa scena si ripeté parecchie volte, finché il terrore
e il male lo vinsero al punto che rimase immobile nel caminetto
e si aggrappò alla mensola, rifiutandosi di muoversi.
Ma cosa poteva fare? Era solo una piccola spazzola umana
che era stata venduta per quattro sterline,
e Smith, che aveva pagato, aveva tutta l’intenzione di farne buon uso.
Il maestro lo afferrò per le spalle e lo spinse su per la cappa quanto poté.
«Ora», disse, «Ted ti segue con uno spillone.
Se raggiungi la cima avrai una fetta di dolce.
Se no, sarai punto sugli stinchi finché non vai su, e battuto quando scendi.
Avanti, aggrappati!»
E smise di spingerlo, lasciandolo nella cappa del camino.
Piangendo e sospirando, con la pelle delle gambe e delle braccia lacerata,
Jim si arrampicò. Il gentile Ted lo seguiva, incoraggiandolo
e indicandogli dove mettere le ginocchia.
Enormi cumuli di fuliggine gli cadevano addosso, riempendogli gli occhi e la bocca.
A un certo punto, dove il camino faceva una svolta,
fu sepolto completamente da una massa di fuliggine spessissima,
e sarebbe soffocato se Ted non gli avesse dato uno strattone per la camicia.
«Su, Jim, ecco il cielo! Siamo quasi in cima».
Jim continuò con enormi sforzi, raggiunse la cima,
ma non trovò nessuna fetta di dolce ad aspettarlo.
«Ora andiamo giù. Vieni lentamente, Jim, perché devo spazzare la fuliggine
man mano che scendo».
Quando raggiunsero il fondo,il bastone di Smith era scomparso
e i servi diedero ai ragazzi pane, burro e alcuni avanzi di carne di montone.
Per una settimana Jim non si arrampicò,
perché le ferite alle ginocchia dovevano rimarginarsi;
andò solo per le strade a gridare: «Spazzacamino, spazzacamino».
In seguito, però, dovette arrampicarsi su per i camini ogni giorno
e, poco a poco, la pelle delle ginocchia e dei gomiti diventò dura come cuoio.
Smith lo diede in prestito ad altri maestri, e, poiché Jim
era il più piccolo spazzacamino della zona, era richiesto moltissimo
e talvolta puliva sei, sette camini al giorno.
Continuava, però, ad avere paura, perché non tutti i maestri
erano gentili come Smith e certe volte lo mandavano su per camini
così bollenti da procurargli scottature gravi.
Per quattro anni Jim lavorò da Smith.
Non crebbe per niente e contrasse una tosse che gli procurava <
dei fremiti dolorosi per tutto il corpo.
Un mattino d’inverno in cui Smith l’aveva mandato su per un camino
particolarmente stretto, cominciò a tossire al’improvviso,
mosse le braccia in modo malaccorto, e rimase bloccato.
Smith e i servi aspettarono, chiedendosi perché non scendesse.
Poi il maestro ficcò la testa nella cappa, urlando: «Che ti succede?».
Sentì un leggero sospiro e un rumore sordo.
Un’ora dopo fece demolire una parte del camino per tirarlo fuori,
ma, ovviamente, il bambino era morto. La fuliggine l’aveva soffocato.
Non ci fu nessuna indagine, e siccome la madre di Jim,
costretta dalla miseria a continuare a lavorare in fabbrica,
non poteva permettersi di lamentarsi, non successe niente.
Smith seppellì il bambino e ne comprò un altro.
E le cose continuarono ad andare avanti così.
C’erano piccoli schiavi nei camini, piccoli schiavi nelle fabbriche,
piccoli schiavi nelle miniere.
Dovettero passare molti anni prima che il Parlamento cominciasse ad aiutare<
i bambini, facendo passare quelle leggi che proibivano
ai maestri spazzacamini di usare bambini come spazzole.
Ma Jim, Anna e Jenny erano ormai morti da lungo tempo.
(da C’eravamo anche noi Italo Bovolenta editore)

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